L’ira Dei Vilipesi. Guido Pagliarino

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L’ira Dei Vilipesi - Guido Pagliarino


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i lineamenti di Mariapia non fossero più corrucciati, il viso non le si era rasserenato: la sua espressione da tenebrosa s’era mutata in mesta.

      Aveva aperto la porta di casa con la propria chiave, che teneva in un portamonete in tessuto di canapa entro l’unica, fonda tasca della gonna grigio topo tessuta in filato cafioc27 , sorretta da una cinghia opaca nera di cuoital28 , nella quale era infilata una camicetta color azzurrite anch’essa in cafioc; la giovane indossava ai piedi calzerotti grigi in lanital entro due scarponcelli neri di coriacel29 con le suole in gomma parimenti nere ricavate, direttamente dall’artigiano fabbricante, da vecchi copertoni di auto.

      Come i due poliziotti avevano osservato, l’appartamento era composto di tre vani e un corridoio; questo, largo un paio di metri, attraversava l’alloggio per tutta la sua lunghezza terminando su di una finestrella senza imposte; le tre stanze erano tutte alla sinistra di chi entrava, in quel momento avevano le porte chiuse ma, come s’intuiva dalla posizione, s’affacciavano su via Monteoliveto. A destra accedendo, c’era una balconata che fiancheggiava il corridoio e sovrastava una piana di orti larga come la palazzina e profonda il triplo, con sparsi meli e susini, fitte piantine di ortaggi e tre brevi filari paralleli di viti: anche quella pezza di terra apparteneva all’ambulante. A un estremo della balconata, a sinistra di chi fosse uscito all'aperto per l’unica porta-finestra, centrale al corridoio, c’era un gabbiotto in legno che, come gli ospiti avevano intuito, ospitava il wc domestico.

      S’era udito qualcuno muovere nella stanza prossima all’ingresso, che si sarebbe rivelata una cucina tinello.

      â€œChi c’è?” aveva chiesto Vittorio alla giovane.

      Senza rispondergli, Mariapia ne aveva schiuso per appena un terzo la porta e s’era infilata nel vano, richiudendosela dietro. S’era udito un parlottare incomprensibile, poi la porta s’era riaperta, questa volta interamente, e la ragazza era uscita seguita dai genitori.

      Il papà, Antonio Scognamiglio, s’era fatto incontro agli ospiti con la fronte increspata d'inquietudine, gli occhi rivolti agli stivali e ai calzoni del Bordin dall'evidente banda laterale fucsia. Il manifesto disagio del padron di casa s’era accentuato quando, un momento dopo, il brigadiere s’era tolta la giacca del D’Aiazzo per restituirla al proprietario, mettendo così in bella mostra i gradi cuciti sulle maniche della propria giubba. Nondimeno il padre di Mariapia era in sostanza uomo probo. La sua diffidenza non era stata causata dall’aver avuto qualcosa da nascondere alla giustizia, ma dal fatto ch’era radicato in lui fin da bambino, come di norma nella plebe napoletana, un senso di grande prudenza, per non dire di sfiducia, verso le autorità grandi e piccole, trasmesso da generazione a generazione nel ricordo atavico delle prepotenze dei birri e degli altri pubblici funzionari dei re Borboni. L’uomo era assai piccolo, un cinque centimetri meno del non alto Vittorio, aveva mani callose, era magro come Mariapia e aveva come lei una folta capigliatura, un tempo corvina come quella della figlia ma ormai candida, nonostante non avesse che quarantotto anni; a invecchiargli l’aspetto concorreva il volto rugoso come, dopo anni di mare, diviene quello dei naviganti e dei pescatori per la continua esposizione al sole e alla salsedine; e infatti egli aveva esercitato, su natanti d’altura, l’apprezzata professione di capo pesca, com'era ancora scritto sulla sua carta d’identità. Quattordici mesi prima però, come aveva confidato quasi sùbito agli ospiti per giustificare il suo essere in casa, aveva perso il lavoro, dopo più di tre decenni sullo stesso peschereccio prima quale apprendista, poi come pescatore rifinito e, infine, quale capo pesca. Aveva rivelato d’averlo perduto drammaticamente, nel luglio del 1942, per l’affondamento dell’imbarcazione, colpita a morte da una bomba d’un cacciabombardiere marino inglese De Havilland Sea Mosquito il cui profilo stilizzato, visto dal basso, era notissimo ai naviganti italiani perché affisso nei porti: Antonio era stato l’unico sopravvissuto alla mattanza perché, bravo nuotatore, s’era buttato in acqua non appena aveva avvistato la sagoma nemica abbassarsi sul peschereccio. Era stato recuperato da un cacciatorpediniere della Regia Marina italiana, in rotta verso il porto di Napoli, ch’era passato per buona ventura nell’area nautica dell’affondamento appena una decina d’ore dopo, essendo ancora giorno, e altra fortuna, essendo di vedetta sul caccia un occhiuto comune di prima classe30 , che aveva scorto il pescatore aggrappato a una tavola del fasciame del peschereccio mandato all'aria dalla bomba. Pure bene, nel male, era stato che la stagione fosse stata l’estiva, con l’acqua marina a temperature sopportabili, e che l’affondamento fosse avvenuto all’alba, per cui le dieci ore in acqua erano state tutte di sole. Dopo d'allora, Antonio s’era arrangiato, come tanti suoi conterranei, con lavori raccattati dì per dì, solitamente nel porto come scaricatore, ma solo finché le strutture portuali, già danneggiate dai bombardamenti angloamericani, non erano state distrutte dai tedeschi occupanti e non era stato emesso il divieto ai civili d’avvicinarsi al mare a distanze inferiori ai 300 metri.

      Diversamente dal proprio immusonito marito, la madre di Mariapia, Concetta, aveva accolto i due ospiti sorridente, abituata com’era a trattare col pubblico da trent’anni, quale impiegata d’un botteghino del gioco del Lotto. Quel lunedì mattina peraltro, presentandosi al lavoro, aveva trovato il locale serrato e sulla porta un cartello con la scritta Chiusi per lutto; dunque, che si fosse trattato di vero cordoglio o di prudenza in previsione di scompigli nelle vie, che s'attendevano ormai da qualche giorno, Concetta se n'era tornata a casa, da cui il banco del Lotto non era distante essendo affacciato sul corso Umberto I a cinquanta metri a destra di via Monteoliveto. Non aveva avuto noie né andando né tornando in quanto, per sua fortuna, le Waffen SS erano sopraggiunte a sistemare il posto di blocco una decina di minuti dopo il suo rientro. A differenza dei brevilinei marito e figlia, la donna era alta un metro e settantadue, statura notevole in quei tempi rispetto alla norma della popolazione campana d’entrambi i sessi i cui antenati avevano sofferto la fame, come d’altro canto l’avevano patita non pochi dei loro pronipoti prima del conflitto e quasi tutti dopo il suo scoppio. Concetta tuttavia, nonostante la guerra affamatrice, era una donna obesa. Stando ai lineamenti fini e agli occhi grandi che spiccavano belli sul suo volto sformato dal grasso, doveva essere stata un’avvenente giovane, ma ora dimostrava più dei suoi quarantaquattro anni e non solo per la ciccia, traballante sotto il mento al solo muoversi, ma perché era priva di tutti gli incisivi e dei due canini inferiori, oltre che di quattro non visibili molari, denti che aveva perso prima di giungere alla quarantina a forza di rimpinzarsi di caramelle e cioccolatini, quando lo zucchero e i dolci non erano pressoché introvabili come dopo l’inizio del conflitto; poiché però la tessera annonaria riguardava soltanto – non che fosse piccola privazione – zucchero, pasta, pane, farina, latte, burro, strutto, lardo, olio e carni, generi alimentari venduti per legge in quantità limitatissime a prezzi politici, lei si rifaceva della mancanza di caramelle mangiando frutta, soprattutto uva e fichi quand’era la loro stagione, comprata dal fruttivendolo suo padrone di casa, e bevendo generosamente vin dolce grazie all’abbondante produzione viticola, e quindi enologica, non solo nella zona ma in molte altre dell’Italia, nazione mediterranea che, in quel tempo, era prevalentemente agricola, tanto che la vendita di frutta e vino non era stata sottomessa a tesseramento. Concetta Scognamiglio era nata, sotto il diffusissimo cognome Esposito, nella famiglia relativamente benestante d’un pizzaiolo proprietario d’un locale d’angiporto, frequentato da marinai e pescatori, che dopo qualche anno camorristi avevano devastato e incendiato, non essendo state esaudite le loro pretese di compenso per la cosiddetta protezione. Dunque il padre era stato ridotto a pizzaiolo in casa altrui, la madre a cucire e stirare per conto terzi e a pulire pavimenti di altri, il dodicenne figlio maschio a fare lo sguattero in trattorie; invece la figlia maggiore, Concetta, che aveva allora quattordici anni, aveva avuto la buona fortuna di trovar posto nel banco del Lotto, grazie a un parente del titolare amico del suo papà: tal genere d’impiego era considerato elevato nell’ambiente popolano, sistematico giocatore ai 90 numeri, perché la persona che stava dietro alla cassa non solo prendeva i soldi, ma doveva conoscere a menadito la scienza della Smorfia per dar consigli sopra sogni e numeri. L’importanza del suo lavoro aveva provocato, nei riguardi


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