Il Metro Dell'Amore Tossico – Romanzo. Guido Pagliarino

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Il Metro Dell'Amore Tossico – Romanzo - Guido Pagliarino


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io, con una mossa dell'arte marziale che avevo appreso in Pubblica Sicurezza, avevo bloccato a metà l'arco della lama e disarmato il braccio criminale facendo cadere il rasoio a terra; immediatamente dopo, avevo pestato per bene l'aggressore su testa, volto e tronco e l'avevo messo in fuga giù per le scale: ero giovane a quei tempi, agile e atletico e, cosa non trascurabile, molto alto, 1 metro e 90, mentre quell'individuo era di media statura per cui, mirando alla gola, aveva colpito da sotto in su con non piena forza. Non avevo ritenuto prudente inseguirlo. Avevo raccolto e messo in tasca il rasoio per portarlo a Vittorio, chiusa a chiave la porta di casa ed ero sceso evitando l'ascensore e prendendo per le scale guardingo. Come m'ero però aspettato, dell'individuo nessuna traccia.

      Avevo raccontato sbrigativamente all'amico la mia disavventura, quindi gli avevo consegnato la lama dell'aggressore.

      Aveva commentato: "Sono sempre più comuni le cosiddette rapine iniziate dall'esterno, forse avrebbe voluto suonare alla porta e poi entrare sotto minaccia di quel rasoio per derubarti, ma è stato sorpreso dalla tua imprevista uscita sul pianerottolo e, temendo che tu facessi baccano, ha perso la testa e ti s'è avventato contro, cercando di farti tacere col tranciarti la gorgia. Perché nemici mortali tu non ne hai, no?"

      "Non credo proprio."

      "Ergo dovrebbe essere stato un tentativo di rapina. Hai detto che aveva i guanti, perciò niente impronte se non le tue. Mascherato, dunque nessun dettaglio del volto, a parte gli occhi scoperti: ne hai osservato forma e colore? e dimmi: era alto, basso, magro, grosso? rasoio nel pugno destro o mancino? e ti ha detto qualcosa?"

      "No, neanche una parola, rasoio nella destra, gli occhi non li ho notati nella frenesia della difesa, era alto sul metro e settantacinque circa, magro ma aveva spalle larghe ed è sicuramente prestante e forte perché se l'è filata lesto giù per le scale anche se l'avevo riempito di botte."

      "È già qualcosina, ma difficilmente lo troveremo, immagino non sia tanto citrullo da essersi fatto medicare in ospedale, comunque dopo la tua denuncia potremo indagare presso i pronti soccorsi; molto intelligente però non dev'essere, perché se no, non t'avrebbe mollato sùbito un fendente col rischio di finir dentro per un fatto di sangue, t'avrebbe solo minacciato a una certa distanza chiedendoti di rientrare in silenzio o, semplicemente, sarebbe fuggito senza farti niente."

      "Hm... sì."

      "Va bbuo', Ran, domani mattina mi vieni in Questura per la denuncia, anche se capisci che sarà un po’ difficile che lo troviamo, chillo cattamàro1."

      Dato che nulla m’era stato rubato, avevo deciso di tralasciare.

      

      L'amicizia con Vittorio D'Aiazzo era sbocciata a Genova, lui commissario alla Questura e mio superiore diretto, io agente e poi suo aiutante vice brigadiere promosso per meriti, avendo salvato la vita a un potente ministro, l'onorevole professor Nuto Marradi: In un giorno d'inizio febbraio del 1957 Vittorio, io e due miei colleghi eravamo stati comandati a protezione dell'uomo politico, dal momento del suo sbarco all'aeroporto della città della Lanterna, verso le 10 del mattino, al suo volo di ritorno nel pomeriggio. Un certo Aristide Maria Barani, già indisciplinato impiegato ministeriale e poi anarco-individualista alla macchia, aveva avuto l'infausta idea d'ammazzarlo proprio in quell'occasione; chi sa come e da chi ne avesse avuto notizia. Noi avevamo atteso il Marradi nella zona aeroportuale dove, come programmato, il DC3 Alitalia su cui era imbarcato avrebbe arrestato i motori, e c'eravamo prontamente avvicinati all'aereo quand’era stato aperto il portello-scaletta di sbarco. Mentre il comandante aveva chiesto agli altri passeggeri di restare ai propri posti fin a nuovo invito, il ministro era sceso con i due agenti della sua scorta personale. A 'sto punto l'attentatore solitario, coperto da una tuta da inserviente, era sbucato di corsa da dietro un trattore per traino bagagli con in pugno la sovietica Tokarev TT-33 calibro 7,62, pistolona poco precisa ma piuttosto affidabile quanto agli eventuali inceppamenti, e gli s'era lanciato contro alla garibaldina urlandogli: "Lurido ladro farabutto!" Non essendo ancor prossimo all'obiettivo, gli aveva sparato un primo proiettile, andato a vuoto. Io, essendo di retroguardia nel nostro gruppetto e il più vicino allo sparatore – mi ricordo sempre la sequenza come se fosse stata un sogno – con un tiro della mia Beretta d'ordinanza M34 calibro 9, anch'essa imprecisa per cui di certo aveva contribuito un bel po' di fortuna, avevo ferito l'uomo a una gamba rompendogliela e facendolo crollare a terra; poi alla svelta, con un calcio, gli avevo tolto l'arma di mano. Vittorio, al contrario di me, era in testa alla nostra squadra e il più vicino al ministro a parte la sua scorta personale, per cui senza il mio intervento sarebbe stato non improbabilmente colpito da uno dei successivi colpi dell'anarchico. Il farraginoso Aristide Maria Barani non sarebbe stato condannato al massimo della pena, nonostante la tentata strage, essendo stato ritenuto momentaneamente seminfermo di mente al momento di commettere il fatto in quanto, durante il ricovero in ospedale per la ferita, era risultato sotto i postumi di una sbornia: doveva aver bevuto per farsi coraggio e proprio l'alcol doveva averlo portato ad agire senza gran costrutto; quindi aveva fallito non con mio enorme merito. Comunque, un mesetto dopo era arrivata da Roma la mia promozione a vice brigadiere, per diretto intervento del Marradi come sarebbe corsa voce nell'ufficio personale della Questura. Va da sé ch'ero stato assai grato a quel ministro rivelatosi capace di atti riconoscenti; però l'attentatore non aveva sbagliato giudizio su di lui, l’uomo s'era poi realmente svelato un "ladro farabutto": nel 1967 era stato coinvolto in uno scandalo clamoroso, secondo L’Unità e l’altra stampa socialcomunista in seguito a manovre sotterranee di ambienti economici danneggiati da certe sue politiche. La medesima forza d'opposizione aveva pur ventilato ch'egli avesse potuto mestare più volte anche in precedenza, essendo un segretario di Stato di lungo corso che aveva partecipato, a capo dei più svariati dicasteri, a quasi tutti i governi della Repubblica, da quelli di centro degli anni '50, al gabinetto di centrodestra del 1960 sostenuto dall’esterno dai neofascisti, ad alcuni di centro successivi e, a far capo dal '63, a quelli di centrosinistra. Certo è ch'egli era divenuto sempre più potente nel corso degli anni. Almeno per le ultime malefatte, dopo che la stampa le aveva scoperte e denunciate all'opinione pubblica, era stato messo in stato d'accusa dal Parlamento riunito in seduta comune in base all'articolo 96 della Costituzione, relativo ai reati commessi da membri del governo: lui solo, anche se l'opposizione aveva manifestato il sospetto che i colpevoli fossero stati molti e "tutti di area governativa". Prima che Camera e Senato avessero concessa l'autorizzazione a procedere alla magistratura, il Marradi aveva cercato di fuggire all’estero ma, nel tentativo, era morto in un incidente aereo, e questo aveva alimentato il grave sospetto che fosse stato assassinato da complici perché tacesse per sempre.

      Nel 1968 l'Italia dell'egemonia democristiana e poi democristiano-socialista aveva cominciato a venir gravemente contestata, erano iniziati scioperi a catena ed era sorto il cosiddetto movimento studentesco: per tutti i contestatori i gabinetti di centrosinistra erano da considerarsi nient’altro che servi dei padroni, quanto ai partiti di centrodestra, liberali compresi, tutti semplicemente fascisti. La contestazione avrebbe innescato un formidabile cambiamento nei costumi della popolazione, che sino ad allora erano rimasti in sostanza quelli dei decenni precedenti basati sui valori forti della moralità cristiana persino, almeno di fondo, per gli atei dichiarati.

      Era in tale cornice che si preparava l’avventura che stavo per affrontare affiancato dall'amico Vittorio, durante la quale sarebbe spuntato, fra altri, anche il nome del defunto ministro Nuto Marradi.

      

      Il D'Aiazzo era uomo cinquantenne robusto ma non alto, attorno al metro e sessantacinque. Inalberava una capigliatura bruna e riccia ancor folta ma che, nel 1969, iniziava a cedere alla calvizie sul vertice della testa, configurandovi un principio di chierica.


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