L'allegoria dell'autunno: Omaggio offerto a Venezia da Gabriele D'Annunzio. Gabriele D'Annunzio
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Gabriele D'Annunzio
L'allegoria dell'autunno: Omaggio offerto a Venezia da Gabriele D'Annunzio
Pubblicato da Good Press, 2020
EAN 4064066087852
Indice
IN FIRENZE — PRESSO ROBERTO
PAGGI — M.DCCC.LXXXX.V
L'ALLEGORIA DELL'AUTUNNO FRAMMENTO D'UN POEMA OBLIATO
Il munifico sire Autunno, il dio
cui non più la matura uva compone
intorno il nero crin cerchio d'oblío
né come al fauno del selvaggio Edone
alto in man brilla il cembalo giulío
(ben, cingon la sua fronte ardua corone
di gemme e l'occhio cerulo gli langue
profondamente quasi che del sangue
ei nudrisca una lenta passione)
riverso in nube per i vitrei seni
lucida al sole come un rogo ardente,
quali d'árbori forme in rii sereni
vede pender ne l'aria agilemente
i fastigi de' templi, e sciolti ai leni
spirti de l'aria dà la chioma aulente
che il ciel solca, celeste fiume d'oro,
dietro lasciando un fremito sonoro
a cui guardan le turbe umane intente.
Lui seguon pe 'l viaggio, in un corteo
lungo e composto, cento giovinetti.
Han l'arco più che quello d'Odisseo
grande e lunato, in fascio han dardi eletti;
anche han palvesi; e portan su 'l febeo
capo una sorta di vermigli elmetti
ricoprenti la gota, a mo' de' Frigi,
a mo' del biondo cavalier Parigi.
Nudi e in tutte le membra ei son perfetti.
Perfetti come se dal fior de' parii
marmi avesseli tratti Prassitèle,
muovono insieme i cento Sagittarii,
al magnifico iddio coro fedele.
Brandiscono i gravi archi in gesti varii,
però che frema ne la man crudele
il disío de la strage e de la gloria
e risuonino ancor ne la memoria
le gran selve terrestri, di querele.
Argábalo n'è il buono imperadore
che tiene in pugno il gonfalon levato,
Argábalo che molto dal signore
teneramente è sopra gli altri amato.
Aureo porta l'elmetto e un giustacuore
nitido, di finissimo broccato.
Adergesi com'aquila in ardire,
su 'l capo udendo il gonfalon garrire.
Brilla di gemme il piede coturnato.
Così va la milizia, al suo comando,
raccolta presso il dio; ma se in cortesi
ludi per l'aria s'apre a quando a quando
come s'apre un'aurora, a voi sospesi
guizzano i corpi snelli balenando
e co' i dardi e co' li archi e co' i palvesi
fingon nuove a la vista meraviglie.
Alto ridono, simili a vermiglie
fiamme, gli elmetti dal gran sole accesi.
Il dio, poggiato in su la palma il mento
imberbe, a torno gli occhi umidi gira.
— Non più — mormora — i giuochi de' miei Cento,
cui par che guidi il suono d'una lira
così nobile è il lor componimento
e armoniosa la lor flórea spira,
non più recan diletto al cuor profondo!
Qual male ignoto dentro me nascondo,
che sì forte mi crucia? — il dio sospira.
Sospira ei dietro a la sua disianza
ignota; e chiama il buono imperadore.
— Fa che cessi d'in torno ogni esultanza,
o Argábalo, però che del mio cuore
il Dolore fatto abbia la sua stanza! —
Pronti, al comando, frenano l'ardore
i Sagittarii; e seguon tristamente.
Suonano ancor ne la memoria ardente
le gran selve terrestri, di clamore.
Di clamore e de l'armi e de' gran corni
risonavan le selve al lor passare.
Vedeansi lungi per i bui soggiorni
i meandri de' fiumi balenare.
Se i nudi cacciatori in su' ritorni
venìa la ninfa pavida a spiare,
scorgeano quelli in tra la fronda il molle
velo, ed un foco in tutte le midolle
correva. — Oh non mai van perseguitare!
Oh dolce cosa ancor di sangue tinti
premere l'orme de la fuggitiva
giovine, a gara per que' laberinti
ove i culmini il vespero feriva;
lei ghermir; tra la chioma di giacinti
cogliere il fior de la sua bocca viva! —
Seguono in van la desiata effigie.
Tal fino al labro era ne l'onde stigie
Tantalo, e il bel giardin vicin fioriva.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Venezia, ottobre 1887.
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