Capitan Tempesta. Emilio Salgari

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Capitan Tempesta - Emilio Salgari


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Nella casamatta

      El-Kadur, quand’ebbe veduto che Famagosta era perduta e che più nessuna resistenza era ormai da tentarsi nelle viuzze della città, dopo la fuga degli schiavoni e la ritirata precipitosa dei guerrieri veneti, si era lanciato a corsa sfrenata lungo la via di circonvallazione per rifugiarsi nella casamatta della torre della Bragola, dove si sentiva più sicuro che in qualunque altro luogo.

      I turchi, anche da quella parte, cominciavano già a superare le cinte e pugnavano ferocemente contro gli ultimi difensori, diventati ormai troppo deboli per poter rovesciare le scale che venivano appoggiate ai margini dei bastioni a centinaia e centinaia.

      Prima che gli albanesi scendessero le scarpate interne e si rovesciassero a loro volta entro la città, come avevano già fatto i giannizzeri, l’arabo, che era agile e lesto come le antilopi dei deserti del suo paese, giunse dinanzi allo stretto passaggio e vi si cacciò dentro chiudendolo subito con quattro o cinque grossi massi, onde non si potesse scorgere dal di fuori la luce della torcia che era ancora accesa.

      Il suo primo sguardo fu per la padrona.

      La giovane duchessa, stesa sul materasso, era in preda ad un fortissimo delirio. Agitava le braccia come per respingere dei nemici, credendo forse di stringere ancora in mano la spada e di dare addosso ai turchi e dalle sue labbra uscivano, ad intervalli, delle frasi sconnesse.

      – Là… date dentro… eccoli, salgono… le tigri dell’Arabia… ricordatevi di Nicosia… quanto sangue… quanti strazi… ecco Mustafà… fuoco su di lui… Le Hussière… la notte di Venezia… la gondola nera… sulla laguna… notte dolcissima… la luna scintilla sulla Salute… le cupole di San Marco… Sirena incantatrice… vale il golfo di Napoli… Cos’è questo rombo che si ripercuote nel mio cervello?… Ah! Sì, li vedo… salgono… il Leone di Damasco li guida… uccidono!

      Un grido era sfuggito dalla bella bocca della duchessa, mentre i suoi lineamenti erano spaventosamente alterati da un’angoscia inesprimibile.

      Si era alzata a sedere, puntando le mani, cogli occhi dilatati dal terrore, guardandosi intorno senza nulla vedere, poi si era nuovamente rovesciata sul materasso, richiudendoli. Una calma improvvisa era subentrata a quell’accesso di delirio. Non ansava più, il suo volto si era ricomposto e la sua bocca sorrideva. Un sonno profondissimo pareva che l’avesse colta.

      L’arabo, seduto su un macigno, presso la fiaccola che lanciava di quando in quando dei bagliori sanguigni sulle nere ed umide pareti della casamatta, la guardava, tenendosi la testa stretta fra le mani ed i gomiti appoggiati sulle ginocchia.

      Di quando in quando un profondo sospiro sollevava il suo petto ed i suoi sguardi, staccandosi dalla duchessa, guardavano nel vuoto come se cercasse qualche lontana visione.

      Uno strano lampo brillava negli occhi del povero schiavo; la sua fronte, che non aveva ancora conosciute le rughe, si offuscava burrascosamente. Al di sotto delle palpebre due lagrime gli irrigavano le brune gote, scendendogli silenziosamente fino al mento.

      – Gli anni sono passati, i vasti orizzonti luminosi, le dune di sabbia, le tende della tribù predatrice che mi ha rubato fanciullo a mia madre, le alte palme, i mehari galoppanti sul deserto sconfinato, sono stati dimenticati, ma rivedo ancora nella mia schiavitù dorata la mia dolce Laglan – mormorava.

      – Povera fanciulla, rubata e chi sa in qual paese della nefasta Arabia ti trovi ora! Avevi gli occhi neri come la mia padrona, avevi il volto dolcissimo e le labbra così belle; io dormivo felice quando tu suonavi la mirimba, scordando le crudeli battiture del padrone! Ti rivedo, fanciulla, quando portavi al povero schiavo, quasi morente sotto le sferzate dei curbax di quel miserabile, l’acqua onde si dissetasse. Ti rivedo quando sulla spiaggia sabbiosa mi sorgevi dinanzi stillante acqua marina e ti riposavi all’ombra delle palme, felice di guardarmi! Tu sei scomparsa, forse sarai morta laggiù, sulle rive del Mar Rosso, che allietava coi mormorii delle sue eterne onde i nostri affetti, le speranze del nostro avvenire ed è sorta nel mio cuore un’altra donna più fatale di te.

      Ricordo i tuoi occhi neri, che io fissavo ogni sera quando il sole tramontava sul mare ed i cammelli tornavano dal pascolo, ma lei ha la pelle bianca, mentre io l’ho nera e non è schiava come te. Eppure non sono un uomo anch’io? Non ero nato libero? Forse che mio padre non era un gran guerriero degli Amarzucki?

      Si era alzato, comprimendosi con maggior forza la testa e rigettando dietro di sè l’ampio mantello, poi tornò a sedersi o meglio si lasciò cadere sul masso, come se quell’energia momentanea l’avesse abbandonato.

      El-Kadur piangeva e quelle lagrime gli irrigavano il viso bruno.

      – Sono uno schiavo, – disse con voce rauca – un cane fedele della mia signora, che solo la morte potrà rendere felice.

      – Meglio sarebbe stato che una palla od una scimitarra dei miei antichi correligionari m’avesse squarciato il cuore… tutte le ansie, tutti i tormenti dello schiavo disprezzato, a quest’ora sarebbero finiti…

      Si era bruscamente alzato avviandosi verso l’apertura, come se avesse preso una decisione disperata ed aveva cominciato a rimuovere i massi.

      – Sì, – disse con accento quasi feroce. – Andrò a trovare Mustafà, gli dirò che anch’io quantunque abbia la pelle nera e sia un arabo, sono un credente della Croce e non della Mezzaluna, che io ho molte volte traditi i turchi e mi farà decapitare.

      Fra un’ora dormirò il sonno eterno anch’io, come dormono a quest’ora migliaia di prodi guerrieri e tutto sarà finito.

      Un gemito che sfuggì dalle labbra della duchessa, lo arrestò, facendolo sussultare.

      Si volse, passandosi una mano sulla fronte ardente.

      La torcia stava per spegnersi e mandava qualche guizzo che si rifletteva sul bellissimo e pallido viso della duchessa.

      Le tenebre stavano per invadere la casamatta, che non aveva più alcuna comunicazione col di fuori. Quell’oscurità fece sull’arabo una paurosa impressione.

      – Quale delitto stavo per commettere io, andando a cercare la morte? E la mia padrona? Vile che sono, io l’abbandonavo qui, sola, ferita, senza soccorsi… io che sono il suo schiavo, il suo fedele El-Kadur! Ero pazzo, ero un miserabile!

      Si era avvicinato in punta di piedi alla duchessa. Dormiva ancora, coi lunghi capelli neri sparsi intorno al viso marmoreo, le braccia tese come se stringessero la formidabile spada di Capitan Tempesta ed il pugnale.

      Il suo respiro era regolare, ma il suo cervello doveva essere turbato da qualche sogno, perchè di quando in quando la fronte si rannuvolava e le sue labbra s’increspavano.

      Ad un tratto un nome le sfuggì dalla bocca.

      – El-Kadur… mio fido amico… salvami…

      Un lampo di gioia sconfinata era brillato negli occhi neri e profondi del figlio dei deserti arabi.

      – Mi sogna, – mormorò, con un sordo singhiozzo. – Mi chiede di salvarla! Ed io stavo per abbandonarla e lasciarla morire! Ah! Mia signora! L’arabo, lo schiavo vostro morrà, ma vi strapperà dai pericoli che v’insidiano.

      Quell’esplosione di gioia fu però di breve durata, perchè un altro nome era uscito dalle labbra della duchessa.

      – Le Hussière… dove sei tu… quando ti rivedrò?

      Un nuovo singhiozzo aveva lacerato il petto dell’arabo.

      – Pensa a lui, – disse, senza però che nella sua voce si sentisse alcuna vibrazione di rancore. – L’ama… e non è uno schiavo… Sono pazzo…

      Andò a ricollocare a posto i massi, accese una nuova torcia, essendovene parecchie nella casamatta, poi tornò a sedersi accanto alla duchessa, reggendosi la testa colle mani.

      Pareva che non udisse più nulla: nè il rombo delle ultime cannonate, che venivano sparate sulla cima delle torri non ancora conquistate, nè il vociare furioso dei turchi ormai irrompenti al disopra dei bastioni.

      Che importava a lui ormai che Famagosta fosse caduta e che l’orribile strage fosse cominciata, quando la sua padrona non correva più


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