Capitan Tempesta. Emilio Salgari

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Capitan Tempesta - Emilio Salgari


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cintura, di seta azzurra, mirabilmente ricamata, una spada sottilissima, coll’impugnatura d’argento, simile a quella usata dai francesi di quell’epoca.

      – Che cosa volete dire con quelle parole, capitano Laczinki? chiese, con una voce armoniosa che contrastava stranamente con quella grossa e ruvida del polacco, senza levare la mano dalla guardia della spada.

      – Che i turchi potevano aspettare domani rispose l’avventuriero, alzando le spalle. – D’altronde siamo ancora abbastanza forti per ricacciarli a Costantinopoli o nei loro maledetti deserti dell’Arabia.

      – Non scambiate le carte in mano, signor Laczinki disse il giovane. – Vivaddio. Alludevate a me, poco fa, e non ai miscredenti.

      – Voi od i turchi, per me è tutt’uno rispose brutalmente il polacco che era ancora di cattivo umore, forse in causa della sfortuna che lo aveva perseguitato quella sera con tanta ostinazione.

      Il signor Perpignano, che era un caldo ammiratore di Capitan Tempesta, sotto i cui ordini combatteva, mise mano alla spada e fece atto di slanciarsi contro il polacco, quando il giovane, che aveva conservato un ammirabile sangue freddo, con una brusca mossa lo trattenne, dicendogli:

      – I difensori di Famagosta sono troppo preziosi per uccidersi fra di loro. Se il capitano Laczinki cerca di attaccare lite con me, per sfogarsi delle perdite subite questa sera o perchè dubiti del mio valore, come ho già udito a raccontare…

      – Io! – esclamò il polacco, alzandosi. – Per la barba di Maometto! Quelli che vi hanno narrato ciò sono dei miserabili, che io ucciderò come cani idrofobi, quantunque…

      – Continuate – disse Capitan Tempesta, con calma impressionante.

      – Io dubiti del vostro coraggio, – rispose il polacco. – Siete troppo giovane, mio caro, per godere la fama di celebre guerriero, e poi…

      – Terminate, – disse Capitan Tempesta con un risolino ironico e fermando con un gesto imperioso il signor Perpignano che per la seconda volta aveva messo mano alla spada. – Siete molto divertente, signor mio.

      Il polacco percosse lo sgabello, che fino allora gli era servito da tavolo, con tale violenza, da spezzarlo.

      – Per San Stanislao protettore della Polonia! gridò, rialzando con un moto nervoso i suoi folti baffi, spioventi come quelli dei cinesi. – Mi burlate, Capitan Tempesta? Ditemelo francamente!

      – Eh, dovreste esservene accorto, mi pare rispose il giovane, sempre beffardo.

      – Vi credete ben forte e ben abile spadaccino per scherzare con un vecchio orso polacco, fanciullo, se… siete veramente un fanciullo perchè ho su ciò i miei dubbi.

      Il giovane era diventato livido ed una cupa fiamma gli era balenata negli occhi profondi e nerissimi.

      – Da quattro mesi combatto sulle trincee e sui bastioni, ammirato dai miei guerrieri e da tutti gli assediati; disse dopo un breve silenzio, – e voi mi chiamate e mi trattate da fanciullo? Voi, rodomonte, non avete ucciso tanti turchi quanti ne ho ammazzati io, mi capite, avventuriero?

      Fu il polacco che questa volta impallidì.

      – Avventuriero al pari di voi! – urlò.

      – No, perchè ho una corona ducale sulla mia cotta.

      – Ne metterò una reale sulla mia corazza – rispose il polacco, ridendo. – Comunque sia, duca o… duchessa, non avreste il coraggio di affrontare la mia spada.

      – Duca, vi ho detto, – gridò il giovane e bellissimo capitano. – Questo lo spiegheremo fra noi.

      Gli schiavoni che si erano schierati dietro Capitan Tempesta, avevano dato di piglio alle alabarde ed avevano fatto un passo avanti, come per gettarsi sul polacco e farlo a pezzi.

      Perfino il proprietario della baracca era balzato giù dal banco e aveva afferrato un barilotto vuoto, pronto a scagliarlo addosso all’imprudente avventuriero, ma Capitan Tempesta, come aveva poco prima frenato il signor Perpignano, con un gesto che non ammetteva replica aveva fatto deporre le armi ai suoi guerrieri.

      – Voi dubitate del mio coraggio? disse col suo accento leggermente ironico. – Tutti i giorni un turco, giovane e senza dubbio valorosissimo, si spinge sotto le mura della nostra città e sfida i più abili spadaccini a misurarsi con lui ad armi bianche. Domani non mancherà di mostrarsi. Vi sentite voi il coraggio di affrontarlo? Io sì!

      – Me lo mangerò in un sol boccone rispose il polacco. – Non ho paura dei turchi, io! Non sono nè un veneziano, nè un dalmata. Quelli non valgono i tartari russi.

      – A domani.

      – Che Belzebù mi porti all’inferno se mancherò.

      – Ci sarò anch’io.

      – Chi lo affronterà prima?

      – Come vorrete.

      – Essendo più vecchio sarò io che lo sfiderò; poi vi proverete voi, Capitan Tempesta.

      – Sia, se così vi aggrada. Almeno non si dirà che i difensori di Famagosta si uccidono fra di loro.

      – E sarà più prudente disse il polacco, sogghignando. – La spada di Laczinki salverà capra e cavoli e toglierà un assediante di più all’esercito di Mustafà.

      Capitan Tempesta prese il mantello che uno dei suoi schiavoni gli porgeva, se lo gettò sulle spalle, ed uscì dalla tenda, dicendo ai suoi uomini:

      – Al bastione di San Marco. È là che i turchi lavorano colle mine e che il pericolo è maggiore.

      Uscì, senza guardare il suo rivale, seguito dal signor Perpignano e dagli schiavoni, che oltre le alabarde erano armati di pesanti fucili a miccia.

      Il polacco era rimasto nella tenda e, non sapendo più contro chi sfogare il suo malumore, se la prendeva col disgraziato sgabello fracassandolo interamente a pugni ed a calci, nonostante le proteste del proprietario della baracca.

      Il drappello degli schiavoni, comandato da Capitan Tempesta e dal signor Perpignano, che aveva nella compagnia il grado di tenente, si diresse verso i bastioni, passando attraverso stradicciuole strettissime fiancheggiate da case a due piani.

      La notte era oscurissima, essendo tutte le finestre chiuse e mancando i fanali. Una pioggerella sottile sottile cadeva insistente e noiosa mentre un vento caldissimo, snervante, proveniente dai deserti della Libia, soffiava ad intervalli, sibilando sinistramente fra le tegole delle abitazioni.

      Il cannone rombava con maggior frequenza di prima, e di quando in quando una di quelle grosse e pesantissime palle di pietra, usate in quell’epoca come proiettili, passava sibilando in aria, lasciandosi dietro una striscia di scintille e cadeva con sordo fragore su qualche tetto, sfondandolo e mettendo lo scompiglio fra le persone che occupavano le stanze.

      – Brutta notte disse il signor Perpignano, che camminava a fianco di Capitan Tempesta, il quale si era avvolto interamente nel suo ampio ferraiuolo. – I turchi non potevano sceglierne una migliore per tentare l’attacco del bastione di San Marco.

      – Sarà uno sforzo inutile, almeno per ora rispose il giovane capitano. – L’ora terribile della caduta di Famagosta non è ancora suonata.

      – Ma non tarderà a giungere, signore, se la Repubblica non si affretta a soccorrerci.

      – Non contiamo che sul valore delle nostre spade e sarà meglio, signor Perpignano. La Serenissima è troppo occupata in questo momento a difendere le sue colonie della Dalmazia, e le galere turche battono le acque dell’Arcipelago e del Mar Jonio, pronte ad affondare quelle veneziane che muovessero in nostro aiuto.

      – Allora verrà il giorno in cui saremo costretti ad arrenderci.

      – Ed a lasciarci massacrare, perchè so che il Sultano ha dato ordine di passarci tutti a fil di spada, per punirci della nostra lunga resistenza.

      – Canaglia! Noi forse saremo morti e non assisteremo a quell’orrenda strage, capitano disse il signor Perpignano con un sospiro. – Poveri abitanti! Sarebbe meglio che si lasciassero seppellire tutti sotto le rovine


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