I minatori dell' Alaska. Emilio Salgari
Читать онлайн книгу.qualche imboscata, quando vide staccarsi improvvisamente, dal grosso tronco di una spruce, ossia di un pino gigante di Washington, un indiano armato di un winchester e di una scure, il formidabile tomahawk, l’arma preferita dai guerrieri rossi. Era un uomo di statura molto alta e di complessione robustissima, che indossava una grande pelle di bisonte, adorna di pitture bizzarre, che volevano rappresentare delle teste di orso e delle gambe di antilope.
– Alt!… – intimò l’indiano, puntando il fucile.
– Toh!… – esclamò a sua volta Bennie, senza inquietarsi. – Se non m’inganno questo è mio fratello Mato-o-kenko (Orso vivo).
– E tu sei il Gran Cacciatore, è vero?… È diverso tempo che non ti vedo. Dove va dunque il Gran Cacciatore?…
– A trovare il gran sackem Nube Rossa.
– Chi ha detto al Gran Cacciatore che il sackem si trovava qui, piuttosto che altrove?… Hai incontrato qualche fratello rosso!… Coda Screziata forse?…
– No, – rispose Bennie, – non ho visto nessuno.
– Ah!… Credevo che l’avessi incontrato.
– Coda Screziata?
– Sì, il Gran Cacciatore non l’ha visto sulle rive del lago?…
– Non ho visto che un baribal.
– Il fratello bianco non avrà la lingua forcuta? – chiese l’indiano sospettosamente.
– La mia lingua ha sempre detto la verità.
– How!… how!… Che cosa desidera il Gran Cacciatore?…
– Fumare il calumet, con Nube Rossa.
– Il Gran Cacciatore lo ha già fumato.
– È vero, ma devo parlale col sackem.
– Vuole avere con lui un convegno?
– Lo hai detto.
– Il Gran Cacciatore mi segua.
L’indiano si gettò ad armacollo il winchester e si mise in cammino, precedendo il cavaliere, ma quantunque avesse l’apparenza tranquilla, avendo i Pellirosse una cura estrema nel nascondere le loro inquietudini, e specialmente non volendo mai mostrarsi sospettosi, si studiava di tenersi un po’ da parte per tenere d’occhio il fratello bianco. Attraversò con passo celere una parte del bosco, poi si fermò dinanzi a una vasta radura, dicendo:
– Ecco il campo.
Bennie aveva trasalito, e con un gesto rapido aveva levato la rivoltella dalla fondina, nascondendosela sotto la fascia, non avendo che una fiducia molto relativa nel capo indiano e nei suoi guerrieri, poi aveva appeso all’arcione il fucile, per mostrare che voleva fare la sua entrata da vero amico. Attorno alla radura, disposte in circolo, fra numerosi cavalli pascolanti in libertà, si alzavano due dozzine di alte tende, ossia di logge, o meglio ancora di wigwams. Erano composte da un certo numero di pertiche lunghe e affilate, che si restringevano verso l’estremità, formando dei coni, coperte con pelli di bisonte con dipinti in rosso, raffiguranti teste di animali, corna di bisonte e serpenti, e da pezzi di tela cuciti alla meglio. In mezzo ai wigwams, Bennie scorse subito un palo piantato nel suolo, a cui era attaccato solidamente un giovanotto dalla pelle bianca, con i capelli e gli occhi neri. Quel disgraziato, probabilmente il compagno dello scotennato, ignaro forse della tremenda sorte che lo attendeva, pareva tranquillo, e guardava più con curiosità che con apprensione alcuni guerrieri indiani che gli si erano accoccolati intorno, ridendo e chiacchierando. Vedendo il cacciatore, alzò il capo, osservandolo con viva attenzione, poi si lasciò sfuggire un grido di stupore, e tentò di rompere le corde che lo trattenevano. Bennie finse di non vederlo, e andò a fermarsi dinanzi a una tenda, più vasta delle altre, sulla cui cima ondeggiava un pezzo di pelle di castoro con sopra dipinto un uccellaccio che voleva forse raffigurare un corvo. Era certamente il totem della tribù, ossia lo stendardo. Trenta o quaranta indiani si erano subito radunati attorno al cow-boy, esclamando: – Il Gran Cacciatore!…
– Sì, – rispose Bennie. – Il Gran Cacciatore che viene a fumare il calumet di pace con Nube Rossa.
– Eccolo – rispose una voce. Un indiano di statura quasi gigantesca, era comparso dalla tenda che sorreggeva il totem della tribù. Era un uomo di aspetto maestoso e dalla muscolatura potente, che doveva sviluppare una forza erculea. Poteva avere quarant’anni, come poteva averne anche cinquanta, avendo già profonde rughe sulla fronte. Aveva i lineamenti angolosi, duri, la pelle rosso mattone, qua e là tatuata sulle gote, lo sguardo penetrante, dall’espressione feroce, e una capigliatura lunghissima e nera. Come capo tribù, indossava uno di quei superbi mantelli di lana di montone delle montagne, e di pelo di cane selvatico, stupendamente lavorato a maglia, con spago a più colori e a disegni complicati e adorno di una frangia lunghissima; grandi uose ricamate e guernite ai lati di frange leggere, forse formate da capelli strappati dal cranio di qualche nemico, e calzoni di pelle di daino stretti alle cosce. Sul capo portava un ciuffo di penne di tacchino selvatico, che, gli scendeva fino a mezzo dorso, dandogli l’aspetto di un istrice.
– A’hu!… – esclamò il sackem, scorgendo Bennie. – Come mai mio fratello il Gran Cacciatore viene a trovare Nube Rossa? Forse la speranza di sottrarre al palo della tortura l’uomo dalla pelle bianca?… Se questo è il motivo che lo conduce, può tornarsene sulle rive del lago.
L’accoglienza non era certo incoraggiante, ma il cow-boy conosceva troppo bene gli indiani, per farci caso. Scese tranquillamente dalla sella, legò il cavallo a una pertica della tenda, volendo averlo vicino, poi disse:
– Il Gran Cacciatore saluta il gran sackem Nube Rossa, e desidera fumare assieme il calumet di pace, prima di spiegare il motivo della sua venuta.
– Il Gran Cacciatore sia il benvenuto. Farò radunare nella mia tenda il consiglio degli anziani, poiché vedo che si tratta di un convegno. Il fratello bianco mi segua senza timore.
Il cow-boy lanciò prima uno sguardo sugli indiani che lo circondavano, un altro sul campo, per assicurarsi che nessuna misura era stata presa per impedirgli di prendere il largo in caso di pericolo, e seguì il sackem nell’interno della vasta tenda, passando per una stretta apertura mascherata da un pezzo di pelle appeso a due chiodi. Il wigwam era pieno di fumo, avendo gli indiani l’abitudine di tenervi acceso il fuoco nel mezzo per cucinare le loro vivande, e per affumicare le carni che vogliono conservare. Bennie distinse vagamente fra le ondate fumose che non trovavano sfogo sufficiente dall’apertura situata in alto, delle pelli di bisonte che dovevano servire da letti, pentole di rame, valigie semischiacciate, casse sfondate, dei quarti di bisonte che si seccavano, delle vesti, delle armi, ma tutto ciò accumulato alla rinfusa, senza alcun ordine. Nube Rossa con dei calci respinse degli oggetti che ingombravano il suolo, e si accoccolò dinanzi al fuoco, facendo cenno al cow-boy d’imitarlo. S’erano appena accomodati, quando entrarono altri sei indiani, quasi tutti vecchi, rugosi, con i volti tatuati e le braccia coperte di numerose cicatrici, riportate nelle sanguinose lotte sostenute contro i Piedi Neri, i loro implacabili nemici. Salutarono il Gran Cacciatore con un A’hu prolungato, poi sedettero tutti attorno al fuoco, mentre un giovane guerriero portava il calumet, una pipa con la scodellina di terra dura e nera, e con una canna lunga oltre un piede, il tutto scolpito con figure grossolane rappresentanti due uomini, un canotto e una scure. Nube Rossa la caricò con tabacco già precedentemente bagnato con acquavite e poi seccato, aspirò gravemente alcune boccate, disperdendo il fumo ai quattro lati dell’orizzonte e pronunziando alcune parole misteriose, e la passò a Bennie, il quale la fece circolare. Quando tutti ebbero fumato e la pipa fu riportata nella tenda della medicina, il cow-boy prese la parola fra il più profondo silenzio.
– Mio fratello Nube Rossa ha indovinato il motivo della mia venuta nel suo campo; il Gran Cacciatore è venuto a fare appello ai sentimenti umani dei guerrieri rossi, alla promessa da loro fatta ai rappresentanti della Grande Madre di non più uccidere gli uomini dalla pelle bianca e di sotterrare per sempre l’ascia di guerra, promessa fatta e mantenuta anche dalle grandi tribù del sud, le quali ormai rispettano i