I Pirati della Malesia. Emilio Salgari
Читать онлайн книгу.pronti a manovrare.
– Tigrotti – disse Sandokan, volgendosi verso i pirati affollati sulla spiaggia, – difendete la mia isola. – La difenderemo – risposero in coro i tigrotti di Mompracem, agitando le armi.
Sandokan, Yanez, Kammamuri e la vergine della pagoda d’Oriente salirono in una imbarcazione e raggiunsero la nave, la quale, sciolte le gomene, navigò verso l’alto mare salutata da urla di:
– Evviva la Perla di Labuan!…Evviva la Tigre della Malesia!… Evviva i tigrotti di Mompracem!
6. Da Mompracem a Sarawak
La Perla di Labuan, con la quale il capo dei pirati di Mompracem stava per intraprendere l’audace spedizione, era uno dei più grandi, dei più bei prahos che solcassero gli ampi mari della Malesia.
Stazzava centocinquanta o centosessanta tonnellate, il triplo dei prahos ordinari.
Strettissima aveva la carena, svelte le forme, alta e solida la prua, fortissimi gli alberi e amplissime le vele, i cui pennoni non misuravano meno di sessanta metri.
A vento largo, doveva filare come una rondine marinara e lasciarsi di gran lunga indietro i più rapidi steamers e i più veloci velieri d’Asia e d’Australia.
Non aveva nulla che potesse farla credere un legno corsaro. Né cannoni in vista, né equipaggio numeroso, né sabordi. Pareva un elegante praho mercantile con un carico prezioso nella stiva, in rotta per la Cina o per le Indie. Il più astuto lupo di mare si sarebbe ingannato.
Chi però fosse sceso nella stiva avrebbe potuto vedere di che merci il praho era carico. Non erano né tappeti, né ori, né spezie, né thè: erano bombe, fucili, pugnali, sciaboloni d’arrembaggio e barili di polvere in quantità sufficiente per far saltare due fregate di alto bordo.
Chi poi fosse entrato sotto il gran casotto (attap), avrebbe potuto vedere sei cannoni di lunga portata, posti sulle loro carrette, pronti a vomitare uragani di mitraglia e di palle, nonché due mortai da grosse bombe, grappini d’arrembaggio, asce, scuri e pesanti parangs, le armi favorite dei dayachi del Borneo. Girate le innumerevoli rocce e scogliere madreporiche, che rendevano inaccessibile l’entrata della piccola baia alle grosse navi, la svelta Perla di Labuan mise la prua verso la costa del Borneo, e precisamente verso il capo Sirik, che chiude ad occidente la vasta insenatura di Sarawak.
Il tempo era splendido e il mare tranquillo: in cielo pochi cirri color di fuoco: in mare nulla. Non una vela, non una traccia di fumo che segnalasse uno steamer all’orizzonte, non onde. La immensa distesa d’acqua color piombo era perfettamente tranquilla, quantunque soffiasse un leggero venticello fresco.
In meno di venti minuti, il veloce legno raggiunse l’estrema punta sud dell’isola, dietro la quale finiva di sfasciarsi lo scheletro dell’Young-India e prese il largo, inclinato civettuolamente a babordo, lasciando dietro la poppa una linea perfetta. Yanez e Kammamuri, condotta la vergine della pagoda nella più vasta e bella cabina di poppa, erano risaliti in coperta, dove Sandokan passeggiava con le braccia incrociate sul petto e il capo chino, immerso in profondi pensieri.
– Che ti pare del nostro legno? – chiese Yanez al maharatto, il quale, appoggiato al coronamento di poppa, guardava attentamente le coste dirupate di Mompracem che rapidamente svanivano in lontananza.
– Non mi ricordo di aver navigato su di un legno rapido come questo, signor Yanez – rispose il maharatto. – I pirati, a quanto pare, sanno scegliere i loro navigli.
– Hai ragione, mio caro. Non c’è piroscafo che tenga testa a questa valorosa Perla di Labuan. In pochi giorni, se questo vento non diminuisce, noi saremo in vista delle coste di Sarawak.
– Senza combattimenti?
– Ciò non si può sapere. In questo mare si conosce la Perla di Labuan e molti sono gli incrociatori che battono le coste del Borneo. Potrebbe darsi il caso che a qualcuno di loro saltasse il ticchio di misurarsi con la Tigre della Malesia.
– E se ciò accadesse?
– Perbacco, accetteremmo la sfida. La Tigre della Malesia, amico mio, non rifiuta mai un combattimento.
– Non vorrei che ci assalisse qualche grosso vascello.
– Non ci farebbe paura. Abbiamo nella stiva tante sciabole e tanti fucili da armare la popolazione di una città, tante bombe da affondare una flotta intera e tanta polvere da far saltare mille case.
– Ma solo ottanta uomini!
– Ma sai tu quali uomini sono i nostri?
– So che sono coraggiosi, ma…
– Sono dayachi, mio caro.
– Che cosa vuol dire?
– Gente che non ha paura di gettarsi contro una muraglia di ferro difesa da cento cannoni, quando sanno che al di là vi sono teste da tagliare.
– Danno la caccia alle teste, questi dayachi?
– Sì, giovanotto mio. I dayachi, che vivono per lo più nelle grandi foreste del Borneo, si chiamano head-hunters, ossia cacciatori di teste.
– Sono terribili compagni, allora.
– Formidabili.
– E anche pericolosi. Se una notte saltasse loro la brutta idea di decapitarci?
– Non aver paura, giovanotto. Rispettano e temono più noi che le loro divinità. Basta una parola, una sola occhiata della Tigre per farli diventare mansueti.
– E quando arriveremo a Sarawak?
– Fra cinque giorni, se non sopraggiungono accidenti.
– Burrasche, forse?
– Peuh – fece il portoghese alzando le spalle. – La Perla di Labuan, guidata da un lupo di mare come Sandokan, si ride dei più formidabili cicloni. Sono gli incrociatori, ti ripeto, che di quando in quando vengono a seccarci.
– Ve ne sono molti, dunque?
– Pullulano come le piante velenose. Portoghesi, Inglesi, Olandesi e Spagnoli hanno giurato una guerra a morte contro la pirateria.
– Sicché un bel giorno i pirati scompariranno.
– Oh, mai più! -esclamò Yanez, con profonda convinzione.
– La pirateria durerà finché vi sarà un solo malese.
– E perché?
– Perché la razza malese non si sente inclinata per la civiltà europea. Non conosce che il furto, l’incendio, il saccheggio, l’assassinio, terribili mezzi che le somministrano da vivere in abbondanza. La pirateria malese conta parecchi secoli di vita e continuerà per molti secoli ancora. È una eredità sanguinosa che si trasmette di padre in figlio.
– Ma non scema questa razza?? I continui combattimenti devono fare dei grandi vuoti.
– Poca cosa, Kammamuri, poca cosa! La stirpe malese è feconda come le piante velenose, come gli insetti nocivi. Morto uno, un altro ne nasce e il figlio non è meno valoroso né meno sanguinario del padre.
– La Tigre della Malesia è malese?
– No, è bornese e di una casta elevata.
– Ditemi, signor Yanez, come mai un uomo terribile che assalta vascelli, che trucida interi equipaggi, che saccheggia e incendia villaggi, che, infine, sparge ovunque il terrore, si è generosamente offerto di salvare il mio padrone che non ha mai conosciuto?
– Perché il tuo padrone fu il fidanzato di Ada Corishant.
– Conosceva, forse, Ada Corishant? – chiese Kammamuri, con sorpresa.
– Non l’ha mai veduta.
– Non capisco allora…
– Lo capirai subito, Kammamuri. Nel 1852, cioè cinque anni or sono, la Tigre della Malesia aveva raggiunto il culmine della sua potenza. Aveva molti e ferocissimi tigrotti, molti prahos, parecchi cannoni. Con una sola parola faceva tremare tutti i popoli della Malesia.
– Eravate