I Pirati della Malesia. Emilio Salgari

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I Pirati della Malesia - Emilio Salgari


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nove di sera il tre-alberi, sballottolato come un giocattolo, anzi come un semplice fuscello di paglia, era nelle acque di Mompracem.

      Malgrado tutti gli sforzi di mastro Bill, che rompevasi le mani sulla ribolla del timone, la Young-India fu trascinata tanto vicina alla costa irta di scogliere, d’isolotti madreporici e di bassi fondi, da temere che vi si infrangesse contro.

      Il capitano Mac Clintock, con suo grande terrore, scorse numerosi fuochi accesi fra le sinuosità della spiaggia, e, al chiaror di un lampo, ritto sull’estremo ciglione d’una gigantesca rupe che cadeva a piombo sul mare scorse pure un uomo d’alta statura, con le braccia incrociate sul petto, immobile fra gli elementi scatenati.

      Gli occhi di quell’uomo, che sfolgoravano come carboni accesi, si fissarono su di lui in modo strano. Gli parve anzi che alzasse un braccio e gli facesse un gesto amichevole. L’apparizione del resto durò pochi secondi. Le tenebre tornarono a farsi fitte e un colpo di vento allontanò rapidamente la Young-India dall’isola.

      – Che il buon Dio ci salvi! – esclamò mastro Bill, che aveva pure scorto quell’uomo. – Quello era la Tigre della Malesia.

      La sua voce fu soffocata da uno scoppio spaventevole di tuono che si ripercosse nella profondità del cielo. Quello scoppio parve il segnale d’una musica assordante, indescrivibile. Lo spazio s’infiammò illuminando sinistramente il mare in tempesta.

      Le folgori cadevano descrivendo per l’aria mille angoli bizzarri, mille curve diverse, inabissandosi fra le onde e roteando vertiginosamente attorno alla nave, seguite da scrosci spaventosi.

      Il mare, quasi volesse gareggiare con quei tuoni, s’alzò enormemente.

      Non erano più onde, ma montagne d’acqua scintillanti sotto la vivida luce dei lampi, che si slanciavano furiosamente verso il cielo, come attratte da una forza soprannaturale, e che s’accavallavano le une sulle altre, cangiando forma e dimensione.

      Il vento entrava talora a far parte di quella terribile gara, ruggendo furiosamente e cacciando innanzi a sé nembi di pioggia tiepida.

      Il tre-alberi, sbandato spaventosamente ora sul tribordo ed ora a babordo, aveva un gran da fare a tenere testa agli elementi scatenati. Gemeva come se si lagnasse di quei formidabili colpi di mare che lo coprivano da prua a poppa, atterrando l’equipaggio; s’alzava, traballava, sferzava le acque col suo bompresso, veniva ora respinto a nord e ora respinto a sud, malgrado gli sforzi disperati del timoniere.

      Vi erano momenti in cui i marinai non sapevano se galleggiassero ancora o se stessero colando a picco, tale era la massa d’acqua che balzava sopra le semi-infrante murate.

      Per colmo di sventura, a mezzanotte il vento che soffiava sempre più tremendo da nord, balzò improvvisamente all’ est.

      Non era più possibile lottare. Tirare innanzi col tifone che assaliva a prua era tentare la morte. Quantunque nessun approdo si presentasse sulla via dell’ovest, eccettuate le temute sponde di Mompracem, il capitano Mac Clintock dovette rassegnarsi a porsi alla cappa e fuggire con tutta la celerità che permettevano le poche vele ancor rimaste spiegate.

      Due ore erano scorse da che la Young-India aveva virato di bordo, inseguita con accanimento senza pari dai marosi che pareva avessero giurato la sua perdita.

      I lampi erano diventati assai rari e l’oscurità tanto fitta da non permettere di vedere a duecento passi di distanza.

      Ad un tratto agli orecchi del capitano giunse quel fragore caratteristico delle onde quando s’infrangono contro le scogliere, fragore che il marinaio sa distinguere anche in mezzo alle più spaventevoli burrasche.

      – Guarda a prua! – tuonò egli, dominando con la voce il fracasso delle onde ed i fischi del vento.

      – Mare rotto! – gridò una voce.

      – I frangenti! Tuoni!…– urlò un’altra voce.

      Il capitano Mac Clintock si avventò a prua aggrappandosi allo straglio del trinchettino per issarsi sulle murate.

      Non si scorgeva nulla; tuttavia tra le raffiche si udiva distintamente il muggire della risacca. Non v’era da ingannarsi. A poche gomene dal tre-alberi s’ergeva una catena di frangenti, forse una diramazione di quelli di Mompracem.

      – Attenti a virare! – urlò egli.

      Mastro Bill, unendo tutte le forze, tirò vivamente a sé la ribolla.

      Quasi nel medesimo istante la nave toccò.

      L’urto però era stato appena sensibile. Solamente una parte della falsa chiglia era stata strappata dalle punte aguzze delle madrepore che formavano le cime dei frangenti. Disgraziatamente il vento soffiava sempre da poppa e le onde spingevano innanzi.

      L’equipaggio, che in quel terribile momento conservava uno straordinario sangue freddo, riuscì a virare di bordo. La Young-India poggiò al largo con una bordata di duecento metri, sfuggendo le scogliere attorno alle quali urlavano, come molossi affamati, le onde. Pareva che tutto dovesse andar bene. La sonda, filata in furia, aveva dato a prua quattordici braccia di profondità.

      La speranza di salvare la nave cominciava a nascere nell’animo dell’equipaggio, quando, d’improvviso, il fragore della risacca tornò a farsi udire dritto l’asta di prua.

      Il mare si sollevava con maggior violenza di prima segnalando una nuova barriera di frangenti.

      – Poggia tutto, Bill! – tuonò il capitano Mac Clintock.

      – I frangenti sotto prua! – urlò un marinaio che era sceso fino alla dolfiniera del bompresso.

      La sua voce non giunse fino a poppa. Una montagna di acqua si rovesciò sul tribordo respingendo violentemente il tre-alberi a babordo, atterrando l’equipaggio aggrappato ai bracci delle vele e sfondando le imbarcazioni contro le gru.

      S’udì un muggito formidabile, uno schianto come di legni infranti, poi un cozzo spaventevole che fece oscillare gli alberi da poppa a prua.

      La Young-India era stata sventrata d’un colpo dalle punte aguzze dei frangenti, e sei marinai, strappati dalle onde, erano stati gettati contro le scogliere.

      2. I pirati della Malesia

      Per il disgraziato tre-alberi era suonata l’ultima ora. Incastrato fra due rocce, che sporgevano appena appena le loro punte nere, dentellate in mille guise dall’eterno movimento delle acque, con le coste rotte e la chiglia frantumata, non era più che un rottame impossibile a ripararsi, che presto o tardi il mare avrebbe indubbiamente ridotto in frantumi e disperso.

      Lo spettacolo era grandioso e insieme spaventevole.

      All’intorno il mare spumeggiava furiosamente con mille boati, frangendosi e rifrangendosi sulle scogliere, trascinando seco frammenti di murate, di madieri, di corbetti e di imbarcazioni che si urtavano con mille scricchiolii.

      Sul tre-alberi i superstiti, quasi tutti pazzi di terrore, correvano da prua a poppa mandando mille urla, mille bestemmie, mille invocazioni. Uno s’arrampicava sulle griselle, un altro si spingeva fino alle coffe, un terzo più su, fino alle crocette. Un quarto invece saltellava come se fosse sui carboni ardenti chiamando Dio e la Madonna chi s’affannava a passarsi attraverso al corpo un salva-gente, e chi a preparare un galleggiante per montarvici su, appena la nave si fosse sfasciata.

      Il capitano Mac Clintock e mastro Bill, che ne avevano viste di peggio, erano i soli che conservassero un po’ di calma.

      Visto che il tre-alberi rimaneva immobile, come se fosse stato inchiodato sulle scogliere, si affrettarono a scendere nella stiva.

      Videro subito che non v’era più speranza di rimetterlo a galla, poiché era già zeppo d’acqua.

      – Orsù – disse mastro Bill con voce commossa, – la poveretta ha esalato l’ultimo respiro!

      – Hai ragione, Bill – rispose il capitano ancor più commosso. Questa è la tomba della valorosa Young-India.

      – E che cosa faremo?

      – Bisogna aspettare l’alba.

      – Resisterà


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