La caduta di un impero. Emilio Salgari

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La caduta di un impero - Emilio Salgari


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affidando il bambino alla nutrice.

      «Come vedi torniamo completamente sconfitti, e se non ci fosse stato il cornac di Sahur, non so quando noi avremmo potuto far ritorno. Non spaventarti: la corona è ancora ben fissata sui tuoi capelli neri, e noi siamo qui pronti a difenderla. Tremal-Naik quest’oggi partirà per le montagne e faremo calare qui i fedeli e valorosi montanari di Sadhja, poiché sui rajaputi non possiamo più contare assolutamente. Kammamuri è in viaggio per Calcutta, e fra ventiquattro ore Sandokan avrà il nostro telegramma. Fra trenta giorni noi saremo in grado di dare un colpo decisivo a Sindhia. Si tratta solo di sapere se potremo aspettare tanto gli aiuti del mio terribile fratello malese». «Ed i miei montanari?»

      «Ci conto, mia cara, e sono la nostra unica speranza, pel momento. M’ingannerò, ma mi pare che questo nostro impero cominci a sgretolarsi».

      «Forse esageri, Yanez» disse Tremal-Naik. «Non abbiamo che dei paria dinanzi a noi».

      «No, anche dei bengalesi e poi i miei rajaputi. Oh!… Altri ci tradiranno, e fra poco. Quei guerrieri si vendono al migliore offerente, eppure io li pago a pezzi d’oro. Che Sindhia ne abbia più di me? Io non lo credo».

      Prese sul tavolo una sigaretta, l’accese, poi si empì un bicchiere di birra, e guardando il cacciatore di topi che fino allora era rimasto silenzioso: «È ancora vivo il prigioniero?» «Il bramino?» «O meglio il paria».

      «No, Altezza, è morto tre o quattro ore fa. Il troppo lungo digiuno l’aveva sfinito». «Che il diavolo se lo porti!… Ha chiuso per bene anche l’altro occhio?»

      «Sì, Altezza; però avendo io sollevato la sua palpebra, ho veduto un lampo sinistro, pauroso, scaturire dalla nera pupilla, eppure era già morto».

      «Surama, sei più tranquilla ora che quel miserabile ha mandato l’ultimo sospiro?»

      «Sì, mio signore» rispose la rhani. «Prima avevo sempre come una nebbia fitta nel mio cervello, ed ora sono tornata la donna di prima».

      «Che l’abbia accoppato il rajaputo? È l’unico uomo fedele» disse Yanez, guardando il baniano. «Non lo so, Altezza. Quando mi ha chiamato, il bramino era già spirato».

      «Ormai non era che un ingombro» disse il portoghese. «Comincio a diventare cattivo, ma è necessario. Tutti questi tradimenti, che mi stringono fra le loro spire, senza nulla poter opporre in tempo, cominciano a farmi diventare un tiranno. E sia!… Sindhia lo era, ed ora minaccia di riconquistare tutti i suoi sudditi ai quali noi abbiamo dato le più ampie libertà. Si vede che nell’India, per governare, bisogna essere cattivi».

      «Tu hai ragione, Yanez» disse Tremal-Naik. «Solo i rajah sanguinari hanno fortuna in questo disgraziato paese». «Che cosa pensi di fare, mio signore?» chiese Surama.

      «E me lo domandi? Se non avessimo un figlio lascerei andare anche la corona dell’Assam che mi ha dato più noie che soddisfazioni, e andrei a riposarmi a Mòmpracem, a fianco del mio fratello bruno, il terribile Sandokan. Ma vi è il piccino, e per Giove, farò il possibile per lasciargli l’impero che io e tu, Surama, abbiamo guadagnato col nostro valore. Bel mestiere fare il maharajah!… Siamo già ridotti a mangiare delle uova sode o crude per non prenderci delle coliche terribili a base di veleno di bis cobra. Che il diavolo si porti tutti i regni del mondo, Io ne ho abbastanza».

      «Mio signore», disse Surama, «vuoi che prima che scoppi la rivoluzione andiamo a Mòmpracem?»

      «Io!… Io fuggire dinanzi a Sindhia!…» gridò Yanez. «Ah, no!… Quel pazzo che ha riacquistata la ragione mercé le cure prestategli a Calcutta e pagate coi denari nostri, non metterà le sue mani sulla tua corona, mia piccola rhani. Sandokan l’hanno chiamato la Tigre della Malesia; laggiù chiamavano me la Tigre bianca. Siamo nel paese delle tigri, e per Giove, come abbiamo vinto Suyodhana, spero di vincere anche Sindhia».

      Vuotò il bicchiere di birra, poi scagliò il vetro contro la parete, mandandolo in dieci pezzi. «Lo spezzerò come ho fracassato questa tazza». Non era più l’uomo tranquillo.

      I suoi occhi avvampavano, i suoi lineamenti già sempre energici, erano diventati feroci, la sua barba abbondantemente brizzolata, era diventata irta.

      «Ah!… Vogliono la guerra!…» gridò, spezzando una seconda tazza. «L’avranno, e sarà terribile. Vieni, Surama, andiamo a riposarci. Per ora, credo, che nessun pericolo ci minacci».

      «Ed io vado verso le montagne» disse Tremal-Naik. «Sahur è sempre pronto a partire, avrà doppia razione, e andremo a trovare i forti montanari di Sadhja. Non perdiamo tempo, Yanez. Vedo il tradimento sorgere da tutte le parti». «Volevo aspettare qualche telegramma di Kammamuri».

      «Può ritardare assai. Lasciami andare. Tu sai che non conto mai sul sonno. Se mi coglierà, dormirò nell’haudah».

      «Vuoi prenderti il rajaputo gigantesco? È forse l’unico che ha dato delle prove di essere veramente affezionato. È un uomo che può uccidere solamente coi pugni».

      «Sì, me lo porto via» disse Tremal-Naik. «Mi servirà per mandarti mie notizie. Va’, Yanez, la notte è stata pessima per te ed anche per la tua piccola rhani. Chi veglia qui?»

      «Io, sahib», gridò il baniano «e non sarò solo perché è ancora vivo un molosso che ormai si è affezionato a me». «Non hai paura dei tradimenti tu?» Il vecchio cacciatore di topi mostrò la sua fascia piena di armi e disse:

      «Vengano a provarle i traditori: qui vi sono armi da fuoco ed armi bianche. Non sono più giovane, eppure io valgo ancora un mezzo maharatto».

      Dieci minuti dopo, Tremal-Naik rimontava su Sahur insieme al gigantesco rajaputo e partiva per la montagna.

      CAPITOLO TERZO. DUE FURFANTI

      Kammamuri e Tìmul, il giovane cercatore di piste, non avevano perduto il loro tempo.

      Dopo una corsa furiosa sul dorso del penultimo elefante rimasto a Yanez, erano giunti a Rampur, la stazione ferroviaria più prossima all’Assam, almeno in quell’epoca, poiché oggidì le linee si sono triplicate, ed i cui treni conducono direttamente a Calcutta passando attraverso selve immense infestate di tigri e di briganti indiani, non meno audaci di quelli americani, e sopra ponti giganteschi gettati sui grandi corsi d’acqua.

      La «Indian-Sud-Railway» ha organizzato un servizio veramente

      ammirabile. I suoi treni si compongono usualmente di pochi carrozzoni, assai vasti e molto comodi, forniti di comode panchette rialzate, e che per mezzo di cinghie, alla sera, si possono trasformare rapidamente in letti.

      Sui lati opposti degli scompartimenti si aprono due od anche tre gabinetti, per abbigliarsi e per altre cose ancora che richiedono i lunghi viaggi con fermate a lunghissime distanze e piuttosto rare.

      Le finestre sono difese da stuoie di vetiver, che vengono mantenute sempre umide da serbatoi speciali, sicché la temperatura è relativamente abbastanza fresca, anche perché i carrozzoni hanno un doppio tetto che mitiga assai il calore.

      Le insolazioni sono rarissime anche sulla lunghissima linea della «East- Indian-Railway», che va da Calcutta a Bombay.

      Ad ogni fermata un agente della Compagnia sale nei carrozzoni, prende il nome dei viaggiatori che desiderano pranzare nella stazione più prossima che è poi sempre lontanissima, telegrafa, ed il pranzo o la colazione sono sempre pronti, e non a prezzi elevati, poiché in India si vive a buon mercato.

      Kammamuri e Timul, congedatisi dal cornac che li aveva condotti fino alla stazione ferroviaria, in tempo per prendere il primo treno del mattino delle sette e quaranta, si accomodarono in uno scompartimento di prima classe, avvertendo subito l’agente che avrebbero pranzato a Bogra.

      (Trattasi evidentemente di Pursa).

      Si erano appena seduti ed avevano accese le sigarette, quasi certi di non essere disturbati, quando un momento prima che la campana annunciasse la partenza del treno, una porta si aprì e si avanzò un superbo bramino, vestito elegantemente in bianco, con una larga fascia azzurra stretta ai fianchi che sorreggeva due pistole dalla canna lunghissima e dal calcio intarsiato d’avorio e d’argento.

      Era un uomo


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