La regina dei Caraibi. Emilio Salgari

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La regina dei Caraibi - Emilio Salgari


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un povero diavolo che non ha mai fatto male ad alcuno,» piagnucolò il gobbo.

      «Ti domando dove andavi,» disse il Corsaro.

      «Questo granchio di mare correva al forte per farci prendere dalla guarnigione,» disse Carmaux.

      «No, eccellenza!» gridò il gobbo. «Ve lo giuro!»

      «Per centomila rospi!» esclamò Carmaux. «Questo gobbo mi prende per qualche governatore!»

      «Silenzio, chiacchierone!» tuonò il Corsaro. «Orsù, dove andavi?»

      «In cerca d’un medico, signore,» balbettò il gobbo. «Mia moglie è ammalata.»

      «Bada che se tu m’inganni ti faccio appiccare al pennone più alto della mia nave.»

      «Vi giuro…»

      «Lascia i giuramenti e rispondimi. Conosci don Pablo de Ribeira?»

      «Sì, signore.»

      «Amministratore del duca Wan Guld?»

      «L’ex governatore di Maracaibo?»

      «Sì.»

      «Conosco personalmente don Pablo.»

      «Ebbene, conducimi da lui.»

      «Ma… signore…»

      «Conducimi da lui!» tuonò il Corsaro, con voce minacciosa. «Dove abita?»

      «Qui vicino, signore, eccellenza…»

      «Silenzio! Avanti se ti preme la pelle.» Moko, prendi quest’uomo e bada che non ti sfugga. -

      Il negro afferrò lo spagnuolo fra le robuste braccia e, malgrado le sue proteste, lo portò con sè, dicendogli:

      «Dove?»

      «All’estremità della via.»

      «Ti risparmierò la fatica.»

      Il piccolo drappello si mise in cammino. Procedeva però con certe precauzioni, arrestandosi sovente sugli angoli delle viuzze trasversali per tema di cadere in qualche imboscata o di ricevere qualche scarica a bruciapelo.

      Wan Stiller sorvegliava le finestre, pronto a scaricare il suo moschetto contro la prima persiana che si fosse aperta o contro la prima stuoia che si fosse alzata; Carmaux invece non perdeva di vista le porte.

      Giunti all’estremità della via, il gobbo si volse verso il Corsaro e additandogli una casa di bell’aspetto, costruita in muratura, a più piani e sormontata da una torretta, gli disse:

      «Sta qui, signore.»

      «Va bene,» rispose il Corsaro.

      Guardò attentamente la casa, si spinse verso i due angoli per accertarsi che nelle due viuzze vicine non si nascondevano dei nemici, poi si avvicinò alla porta ed alzò un pesante battente di bronzo, lasciandolo cadere con impeto.

      Il rimbombo prodotto da quell’urto non era ancora cessato, quando si udì aprirsi una persiana, poi una voce scese dall’ultimo piano, chiedendo:

      «Chi siete?»

      «Il Corsaro Nero; aprite o daremo fuoco alla casa!» gridò il capitano, facendo scintillare alla livida luce d’un lampo la lama della sua spada.

      «Chi cercate?»

      «Don Pablo de Ribeira, amministratore del duca Wan Guld!»

      Nell’interno della casa si udirono dei passi precipitosi, delle grida che parevano di spavento, poi più nulla.

      «Carmaux,» disse il Corsaro. «Hai la bomba?»

      «Sì, capitano.»

      «Collocala vicino alla porta. Se non obbediscono, daremo fuoco e l’apriremo noi il passaggio.»

      Si sedette su di un paracarro che si trovava a breve distanza e attese, tormentando la guardia della sua spada.

      CAPITOLO II. PARLARE O MORIRE

      Poco dopo si videro degli sprazzi di luce sfuggire attraverso le persiane del primo piano e riflettersi sulle pareti della casa che si trovava di fronte. Una o più persone stavano per scendere, anzi si udivano dei passi rimbombare al di là della porta massiccia, ripercossi dall’eco di qualche corridoio. Il Corsaro si era vivamente alzato, stringendo la spada colla destra ed una pistola colla sinistra: i suoi uomini si erano collocati ai lati della porta, il negro colla scure alzata ed i due filibustieri coi moschetti in mano.

      In quel momento l’uragano raddoppiava la sua furia. Il vento ruggiva tremendamente attraverso le viuzze della borgata, facendo volare in aria le tegole e sbatacchiando con gran fracasso le persiane, mentre lividi lampi rompevano le cupe tenebre e fra le nubi rombava, con un fragore assordante, il tuono. Alcuni goccioloni cominciavano già a cadere e con tale violenza da parer chicchi di grandine.

      «Qualcuno si avanza,» disse Wan Stiller, che aveva accostato un occhio al buco della serratura. «Vedo degli sprazzi di luce brillar dietro la porta.»

      Il Corsaro Nero, che cominciava già a perdere la pazienza, alzò il pesante battente e lo lasciò ricadere. Il colpo si ripercosse nel corridoio interno come lo scoppio d’una folgore.

      Una voce tremante, rispose subito:

      «Vengo, signori!»

      Si udì un fragore di catenacci e di chiavistelli, poi la massiccia porta si aperse lentamente.

      Il Corsaro aveva alzata la spada, pronto a colpire, mentre i due filibustieri avevano puntati i moschetti.

      Un uomo attempato, seguito da due paggi di razza indiana che portavano delle torce, era apparso. Era un bel vecchio che doveva aver varcata di già la sessantina, ma ancora robustissimo e ritto come un giovanotto. Una lunga barba bianca gli copriva il mento scendendogli fino alla metà del petto e i capelli, pure canuti, lunghissimi e ancora assai fitti, gli cadevano sulle spalle. Indossava un vestito di seta oscura adorno di merletti e calzava alti stivali di pelle gialla con speroni d’argento, metallo che in quell’epoca valeva quasi meno dell’acciaio nelle ricchissime colonie spagnuole del Golfo del Messico.

      Gli pendeva dal fianco una spada e nella cintura portava uno di quei pugnali spagnuoli chiamati misericordie, armi terribili in una mano robusta.

      «Che cosa volete da me?» chiese il vecchio, con un tremito assai marcato.

      Invece di rispondere, il Corsaro Nero fece cenno ai suoi uomini di entrare e di chiudere la porta.

      Il gobbo, diventato ormai inutile, era stato lasciato al di fuori.

      «Attendo la vostra risposta,» disse il vecchio.

      «Il cavaliere di Ventimiglia non è abituato a parlare nei corridoi,» disse il Corsaro Nero, con voce recisa.

      «Seguitemi,» disse il vecchio, dopo una breve esitazione.

      Preceduti dai due paggi, salirono una spaziosa scala di legno rosso ed entrarono in un salotto ammobiliato con eleganza e adorno di vecchi arazzi importati dalla Spagna.

      Un doppiere d’argento, sostenente quattro candele, era situato su di una tavola intarsiata di madreperla e di laminette d’argento. Il Corsaro Nero con uno sguardo si assicurò se non vi erano altre porte poi, volgendosi verso i suoi uomini, disse:

      «Tu, Moko, ti metterai a guardia della scala e porrai la bomba presso la porta; voi, Carmaux e Wan Stiller, rimarrete nel corridoio attiguo.»

      Poi guardando fisso il vecchio, il quale era diventato pallidissimo, gli disse:

      «Ed ora a noi due, signor Pablo de Ribeira, intendente del duca Wan Guld.»

      Prese una sedia e si sedette dinanzi al tavolo, mettendosi la spada, ancora sguainata, sulle ginocchia.

      Il vecchio era rimasto in piedi, guardando con terrore ed inquietudine il formidabile Corsaro.

      «Voi sapete chi sono io, è vero? – chiese il filibustiere.

      «Il cavaliere Emilio di Roccabruna, signore di Valpenta e di Ventimiglia,» disse il vecchio.

      «Ho piacere che voi mi conosciate così bene.»

      Il


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