Le stragi delle Filipine. Emilio Salgari

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Le stragi delle Filipine - Emilio Salgari


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il mantello di seta che l’avvolgeva. Romero aveva pronunciato un nome:

      – Teresita!…

      Gli era sfuggito quel nome mentre dormiva e sognava della bruna fanciulla?… È probabile.

      Than-Kiú aveva alzato lentamente il capo che fino allora aveva tenuto chino sul seno, ed un sospiro le era uscito dalle labbra, ma era cosí lieve che nessuno avrebbe potuto udirlo. Le sue braccia però, che teneva strette al petto, provarono un tremito tradito da un leggero tintinnio metallico, prodotto forse da alcuni braccialetti o da alcuni gioielli che portava ai polsi.

      Tornò però ad irrigidirsi, ma tenendo gli sguardi sempre fissi sul meticcio, il quale a poco a poco si era appoggiato alla parete, come se ormai il sonno lo avesse completamente vinto.

      Intanto le tenebre lentamente si diradavano. Spuntava l’alba e dalla porta rimasta aperta cominciava ad entrare un po’ di luce pallida, che rapidamente si tingeva di riflessi color di rosa d’una infinita dolcezza. Anche attraverso ai tronchi sconnessi delle pareti, altri sprazzi di luce entravano, mentre l’aria s’infiltrava piú fresca e profumata dall’olezzo degli aranci che crescevano in mezzo alla macchia.

      Al di fuori, fra i rami degli alberi, una coppia di cyrtostomus, piccoli uccelli dai colori brillanti a riflessi metallici, simili a trochilidi americani, cinguettavano allegramente, salutando la imminente comparsa del sole.

      D’improvviso Romero alzò il capo, come se si fosse bruscamente svegliato, rialzando con una mano i bruni riccioli che gli scendevano sulla fronte. Rimase un momento immobile come trasognato, poi si alzò di scatto, col piú vivo stupore dipinto sul viso.

      Than-Kiú gli stava dinanzi, ancora appoggiata alla tavola, ma aveva lasciato cadere anche il cappello e mostrava il suo viso, che durante tutta la notte aveva tenuto costantemente coperto.

      Il Fiore delle Perle, pur appartenendo ad un’altra razza, poteva ben gareggiare per bellezza colla Perla di Manilla e produrre una viva impressione anche sul cuore di Romero.

      Quella giovanetta, nata all’ombra delle pagode del Celeste Impero e trasportata, chissà in seguito a quali vicende, sotto il dolce clima delle isole ispaniche, era forse una delle piú belle e delle piú perfette creature nate dall’incrocio della razza mongola con quella mantsciura. Era piú alta di Teresita, mirabilmente sviluppata, dalla pelle candida, senza quei riflessi leggermente giallastri che si scorgono sui volti delle donne chinesi delle provincie meridionali, anzi d’una tinta quasi alabastrina, ma con certe sfumature indefinite che solo si scorgono sull’avorio.

      I suoi occhi, lievemente inclinati, d’un nero intenso e che avevano una espressione dolce e malinconica, quasi triste, erano velati da superbe ciglia brune e fitte; il suo naso non era depresso come quello delle donne di razza tartara; le sue labbra rosse, sottili, mostravano denti piccoli come granelli di riso, e d’una bianchezza delicata.

      Aveva i capelli nerissimi, con certi riflessi metallici che facevano spiccare maggiormente la bianchezza marmorea della pelle, raccolti intorno a tre spilli d’oro terminanti in tre grosse perle; il corpo racchiuso entro una casacca di seta azzurra a fiori di vivaci colori, stretta alla cintura da una larga fascia rossa ricamata in oro; calzoncini ampi, pure di seta, ma bianca ad arabeschi gialli, ed i piedi piccoli come una foglia di rosa, per usare una espressione chinese, nascosti entro scarpine di broccato a punta rialzata e colla suola di feltro bianco.

      Non portava gioielli né agli orecchi, né al collo. Solamente ai polsi aveva alcuni cerchietti d’oro sormontati tutti da una perla di notevole valore.

      La giovane chinese, poiché doveva essere molto giovane, forse al pari della Perla di Manilla, non si era mossa. I suoi occhi però, sotto le folte ciglia che quasi li nascondevano, non si erano staccati dal meticcio.

      – Than-Kiú, sei tu?… – chiese Romero.

      – Sí, mio signore, – rispose la chinese, con voce dolce.

      – Hai vegliato, mentre io dormivo?…

      – Sí, mio signore.

      – Invece di riposare?…

      – Than-Kiú non aveva sonno.

      – Strana fanciulla!… – mormorò Romero.

      – Noi amiamo sognare cogli occhi aperti.

      – E sognavi del tuo paese forse, delle cupole dorate od a scaglie dorate di ramarro della tua lontana città natia, o delle albe del tuo Celeste Impero?

      – Forse. Sognavi anche tu.

      – Io?…

      – Sí, mio signore.

      – Ah!… È vero, sognavo battaglie.

      – E perle, – disse Than-Kiú, socchiudendo gli occhi.

      – Sí, anche questo è vero, – rispose Romero, con un sospiro. – Sognavo della Perla di Manilla.

      Udendo queste parole, un leggero rossore si diffuse sul viso alabastrino della giovane chinese, ma si dileguò subito.

      In quel momento entravano i due malesi portando su un vecchio vassoio alcune chicchere di thè fumante, che deposero sulla tavola unitamente ad alcune focacce di frumento.

      Than-Kiú offrí graziosamente una tazza della profumata bevanda a Romero, scusandosi di non potergli dare, almeno pel momento, di meglio; bagnò appena le sue vermiglie labbra in un’altra, poi volgendosi verso i due malesi che parevano attendessero di venire interrogati, chiese loro se l’igoroto era tornato.

      Avuta una risposta negativa, la bianca fronte della giovane chinese si corrugò, mentre i suoi begli occhi tradivano una viva inquietudine.

      – La cosa può diventare grave, – mormorò.

      – Temi che l’abbiano ucciso? – chiese Romero.

      Than-Kiú non rispose. Si era gettata sulle spalle l’ampio mantello di seta bianca, si era messa sul capo il suo grazioso Manilla ed aveva preso la sua piccola carabina, una splendida arma colla canna rabescata ed il calcio intarsiato di madreperla.

      – Dove vai? – chiese Romero.

      – Mi attenderai qui, mio signore.

      – Mentre tu vai forse ad affrontare un pericolo?… Oh!… mai, Than-Kiú.

      – Tu non sai dove si trovano gli spagnuoli e non conosci questa foresta, – rispose la giovane chinese. – Mi preme accertare una cosa.

      – Quale?…

      – Te lo dirò piú tardi, mio signore.

      – Io voglio seguirti.

      – No, è l’ordine del capo delle società segrete, – disse Than-Kiú, con fermezza incrollabile. – Tu devi obbedire, mio signore.

      «D’altronde la mia assenza sarà breve, spero».

      Fece cenno ad un malese di seguirla ed escí senza aggiungere sillaba.

      Romero aveva fatto alcuni passi come se volesse seguirla, ma l’altro malese gli aveva sbarrato il passo dicendo:

      – No, padrone. Bisogna obbedire a Than-Kiú.

      – Ma chi è quella fanciulla?… Forse comanderà piú di me, nominato capo supremo degli insorti della provincia di Cavite? – chiese Romero, con stupore.

      – Per ora devi obbedire, padrone.

      – Ma chi è adunque quella fanciulla?…

      – Than-Kiú.

      – Lo so che si chiama cosí, ma da dove viene, chi sono i suoi genitori?…

      – Lo ignoriamo tutti, ma sappiamo che tutti le obbediscono.

      – Io non l’ho mai veduta prima d’ora.

      – Forse t’inganni, padrone, poiché ella ti conosceva prima di ieri sera e l’ho udita io parlare sovente di te.

      – Ma dove?…

      – A Manilla, e piú tardi nel campo degl’insorti.

      – Conosceva


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