Le stragi delle Filipine. Emilio Salgari

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Le stragi delle Filipine - Emilio Salgari


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diventare il capo supremo delle nostre isole?…

      – Sí, ma il cuore sarebbe allora morto.

      – Maledetta bianca!…

      – Taci, Hang.

      – L’odio, quanto odio suo padre.

      – Taci!… Taci!…

      – E sia: vieni.

      Il meticcio gettò il mantello di seta bianca, riprendendo le sue vesti; poi entrambi lasciarono la sala, riattraversarono il salotto ed il corridoio ed uscirono sulla viuzza oscura che era già tornata deserta.

      Il chinese gettò un rapido sguardo a destra ed a sinistra, poi si mise in cammino, seguíto dal meticcio che era ricaduto nei suoi tristi pensieri.

      Giunto all’estremità della via lanciò un fischio modulato, ma breve. Due uomini che si tenevano celati nell’angolo oscuro d’una casa, si fecero innanzi.

      – È libera la via? – chiese Hang.

      – Non vi è una sola guardia fino al quai del Passig, – risposero i due congiurati.

      Hang riprese il cammino con Romero, inoltrandosi nelle luride stradicciuole del quartiere malese, ed un quarto d’ora dopo si trovavano sul molo di Binondo.

      Non vi era alcuna persona a quell’ora. Solamente dinanzi al quai si scorgevano degli uomini che vegliavano sul ponte di alcune giunche cinesi e di alcuni prahos malesi, che avevano le vele spiegate, come se quelle navicelle fossero pronte a prendere il largo.

      – Sono le undici, – disse Hang, arrestandosi. – Vuoi essere libero?

      – È necessario, – rispose Romero.

      – Sei deciso di recarti dalla Perla di Manilla?…

      – L’ho promesso.

      – Sta in guardia, Romero.

      – Sarò forte.

      – Possono capitarti brutte sorprese.

      – Sono preparato a tutto.

      – Sarai tentato, Romero.

      – Sarò fedele ai miei giuramenti.

      – Alla patria? – disse Hang, con voce grave.

      – Alla patria, – rispose il meticcio, con voce soffocata.

      – Sei armato?

      – Che cosa debbo temere?

      – Chissà?… il destino è talvolta cosí strano, te lo dissi già.

      – Non temo nessuno.

      – Bada che suo padre è qui.

      – Se mi assale, mi difenderò.

      – Rammentati che devi vivere per l’indipendenza delle isole.

      – Non mi farò uccidere.

      – Addio; a domani dinanzi alla casa di Fang, se non ci rivedremo prima.

      – Vuoi seguirmi, forse?…

      Hang non rispose. Si era calato sulla fronte il grande cappello in forma di fungo e si era allontanato rapidamente dirigendosi verso una giunca, il cui equipaggio stava per ritirare le gomene che la tenevano legata al molo.

      – Andiamo, – mormorò Romero, avvolgendosi in un manto dai vivaci colori, che fino allora aveva tenuto sul braccio. – La terribile lotta sta per cominciare o per finire.

      Aprí con un colpo secco una di quelle lunghe ed affilate navaje che usano gli spagnuoli e se la passò nella cintola, dove già stava celata la rivoltella che lo aveva cosí ben servito contro i moros e s’avviò lentamente verso il ponte di Binondo, per entrare nella Ciudad.

      Capitolo IV. TERESITA D’ALCAZAR

      L’arcipelago delle Filippine, su cui si svolse la sanguinosa insurrezione del 1896—97, quasi contemporaneamente a quella non meno tremenda di Cuba, è uno dei piú splendidi possessi che la Spagna abbia salvato dallo sfacelo delle sue tante numerose colonie.

      Si compone di piú di cinquecento isole, ma due sole sono grandissime: Luzon che è la principale, vasta quanto il doppio e piú della nostra Sicilia, e Mindanao, di cui buona parte è ancora indipendente. Altre sette sono pure di grandezza considerevole: Palavan, Samar, Panai, Mindoro, Leité, Negros e Zebú. Le altre minori sono Bohol, Marsbate, Mactan, Marinduque, Burias, Calmina, Bassilan, Catanduanes, Pelillo, Babuiane, ecc.

      Magellano, il grande navigatore che pel primo compí il giro attorno al mondo, fu il primo ad approdare su quelle terre, il 16 marzo del 1521; ma non poté sottoporle al dominio della Spagna, essendo stato ucciso sull’isola di Mactan mentre combatteva in favore del re di Zebú.

      Vent’anni piú tardi, Villalobos vi sbarcava pure chiamando quelle isole Filippine; ma difettando le sue navi di viveri, si vide pure costretto ad abbandonarle senza aver fondata nessuna colonia.

      L’onore di sbarcare i primi uomini bianchi doveva spettare a Michele Lopez de Legaspi, colà giunto intorno al 1561; ma l’onore della conquista di Luzon doveva toccare al nipote Salacedo, il quale, con un coraggio inaudito, alla testa di soli duecentocinquanta uomini, riusciva a debellare i principi tagali, donando alla patria una delle piú floride colonie.

      La sua salita fu rapida, sorprendente, malgrado le acri discordie scoppiate fra i maestrati ed i prelati prima, fra il clero secolare e gli ordini religiosi dopo, e fra le varie fanterie piú tardi. In poco volgere d’anni, mercé l’emigrazione dei chinesi, artefici valenti e mercanti abilissimi, Manilla poté diventare uno dei piú ricchi emporii di quei mari con immenso vantaggio delle finanze spagnuole, le quali traevano da quella colonia ricchezze non inferiori a quelle che traevano dal golfo del Messico.

      La dura oppressione dei conquistatori da un lato e le mire ambiziose del vicino impero chinese, non tardarono però a provocare sanguinose insurrezioni che sconvolsero, a piú riprese, quelle ricche isole, mettendo in pericolo la sovranità ispanica.

      Sfuggite miracolosamente alla spedizione chinese del bandito Limacon, che nel 1574, con sessantadue navi, duemila pirati e millecinquecento donne aveva tentato di sorprendere Manilla, nel 1603 scoppia la prima insurrezione entro le mura della capitale.

      Trentacinquemila chinesi fra mercanti ed agricoltori, istigati da messi dell’imperatore del Celeste Impero, alzano il vessillo dell’insurrezione.

      Una donna tagala, maritata ad un chinese, svela ad un sacerdote la congiura, ma i ribelli non indietreggiano e trucidano gli avamposti spagnuoli.

      Gli abitanti di Manilla di razza bianca comprendono il pericolo e si armano. Soldati, sacerdoti, frati, donne, fanno argine all’insurrezione e dopo una lotta sanguinosa riescono a domarla colla morte di ventitremila nemici.

      Nel 1639, i chinesi spiegano per la seconda volta il vessillo dell’insurrezione e in quarantamila assalgono gli spagnuoli, ma sono nuovamente disfatti e solo settemila sfuggono alla strage orribile.

      Da quelle due ribellioni, soffocate nel sangue e tramandate di padre in figlio, è nato l’odio fra la razza gialla e la razza bianca, odio conservato con pari ferocia e costanza, attraverso quasi tre secoli. I maltrattamenti degli oppressori da una parte, le ladrerie dei collettori che raddoppiavano o triplicavano a loro esclusivo vantaggio le tasse gravanti sui malesi e sui tagali, ed altre insurrezioni qua e là scoppiate e ferocemente soffocate, diedero in breve ai chinesi altri formidabili alleati; la razza olivastra e quella rossastra, i discendenti dei piú rapaci predatori dell’arcipelago sululano e dei nativi, dei primi proprietari del suolo.

      La fusione di queste tre razze di colore, un tempo rivali e che crearono quei vigorosi e intelligenti sangue-misti chiamati meticci, sognanti costituzioni liberali, preparò le insurrezioni di questo secolo.

      Nel 1824, nella capitale echeggia il primo grido di libertà. La rivolta delle colonie spagnuole d’America aveva avuto il suo contraccolpo anche nel lontano arcipelago, ed alcuni ufficiali spagnuoli, unitamente ad alcuni negozianti, avevano preparato la rivolta.

      Erano pochi, ma animosi e si sapevano spalleggiati dalle razze


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