Dannato Malloppo!. Mario Micolucci

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Dannato Malloppo! - Mario Micolucci


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mandò a dormire pure lui. Nel parapiglia, il tipo sgambettato da Donnola cercò di strisciare quatto, quatto per piantare la lama nel polpaccio del bestione; tuttavia il ragazzo lo notò prontamente e gli stampò la punta dello stivale nella tempia mettendolo definitivamente fuori combattimento. Una cosa era certa, i tre non si sarebbero rimessi in piedi a breve. Tutti gli altri clienti, smisero di ridere e, dissimulando disinvoltura, tornarono alle loro cose.

      Il barista scosse la testa estenuato, gettò sul bancone il panno con cui stava asciugando i bicchieri e trasse un respiro profondo: in quel dannato posto, non passava una settimana senza una rissa. Otthims notò il suo sconcerto e lo consolò: «Spero di non aver fatto troppi danni. Solamente io ti posso capire: gestivo un saloon un tempo.» Solo che in quello suo, non c’erano mai state abbastanza persone per metterne una contro una in una zuffa.

      Il Gigante rovistò nei vestiti dei due che aveva steso, ma ne ricavò a stento nove dollari che depositò direttamente sul bancone. «Ben, questi sono per il disturbo. Giovane Badfinger, lui ripuliscilo pure tu.» Indicò il tizio steso dal ragazzo: era lo spaccone che lo aveva schernito. In tasca aveva solo sei dollari; in compenso, con un colpo ben assestato del calcio della pistola, gli carpì un dente d’oro.

      Quando vide l’oste togliersi il grembiule per sistemare il locale, Joe lo fermò con un gesto della mano accompagnato da un sorriso cordiale. «Stai, stai! Ci penso io a gettare la spazzatura.» Si caricò un uomo sulla spalla ampia come la sella di un palafreno, gli atri due li sollevò, uno per mano, usando la loro camicia come manico. Quindi, li trasportò fuori e li gettò nello spiazzo a raccogliere polvere.

      Si riavviò verso il locale per finirsi la bevuta in santa pace, ma si trovò dinanzi Donnola.

      «Signor Otthims, Ben mi ha detto che il mio vecchio ha parlato con te e se n’è andato poco fa. Sai dove?» Sapeva che il padre si recasse sporadicamente da quelle parti a vendere oggetti, ma non aveva idea di dove andasse con esattezza, inoltre, sperava di appurare quali informazioni il Gigante era riuscito a spillare dal padre.

      «E’ andato da Aaron Mansill a cambiare il bottino.» Il sorriso era quello di chi la sapeva lunga.

      “Non posso credere che abbia detto del malloppo a questo sempliciotto!” Doveva indagare un po’ meglio.

      «Ma questo Aaron può cambiare una refurtiva come quella nostra?»

      «Certo, è facile smerciare un buon orologio, anche se dovesse rivenderlo al doppio di quanto l'ha pagato. Ho provato a dirglielo a tuo padre, ma se n’è andato senza darmene l’occasione! Magari fai ancora in tempo ad avvertirlo: se è veramente placcato d’oro come dice, non deve scendere sotto i duecento dollari, centocinquanta sono decisamente pochi.»

      «Allora devo sbrigarmi! Solo che non so dove si trova il ricettatore.»

      «Nessun problema, figliolo. Vai a sinistra fino al maniscalco, imbocca la via a destra, poi procedi per qualche passo e troverai un negozietto malmesso e pieno di cianfrusaglie: non puoi sbagliarti, questo paese è buco. Muoviti, se vuoi fare in tempo.»

      «Grazie!» Il ragazzo si lanciò in una corsa a capofitto. Il motivo della sua fretta era ben più importante di cinquanta dollari. Probabilmente, lo Sbirro, Rick, era da quelle parti e doveva avvertire il padre. Infatti, quando stava per giungere ad Agua Dulce, aveva sentito un rumore di zoccoli dietro di lui; fortunatamente, era coperto da una montagnola, così, aveva fatto in tempo a nascondersi dietro un cespuglio. Da lì, lo aveva visto passare: che fosse andato anche lui a concludere affari con Mansill?

      

      Gli orologi esposti nel negozio, null’altro che cianfrusaglie in un cumulo di cianfrusaglie, tutti quegli orologi da quattro soldi segnavano le sette. Come ogni maledetto giorno, lo avevano tenuto in ostaggio con il loro incedere pressoché immoto. E allo stesso modo di sadici aguzzini, lo avevano torturato con il loro ticchettio tedioso e con la loro metodica flemma. Tuttavia, essi stessi proclamavano la migliore notizia quotidiana: la sua liberazione. Finalmente le sette, l’ora di chiudere i battenti, sedersi da Ben per ingoiare a forza lo scempio culinario del giorno, lamentarsi con il primo che gli capitasse a tiro degli affari che andavano a rotoli e infine, buttare le stanche membra sulla branda sgangherata della sua squallida stanzetta.

      Aaron Mansill non era un plurimilionario, ma abbastanza abbiente per permettersi qualche agio in più, lo era senz’altro. Il fatto era che fosse ossessionato dai ladri, li vedeva ovunque e in chiunque, persino negli uomini che, di volta in volta, ingaggiava per farsi proteggere o per riscuotere quanto gli spettava. Per tale motivo, preferiva scegliere assistenti un po’ tonti e ligi al limite del ridicolo: le cretinate o le sviste, che potevano commettere, erano controbilanciate dal fatto che non l’avrebbero fregato e soprattutto dal fatto che da guardie non si sarebbero trasformati in rapinatori. Faceva di tutto per mostrarsi povero ed effettivamente viveva come tale. Era condannato a condurre un'esistenza da miserabile fino alla morte; tuttavia era quello il prezzo da pagare per diventare sempre più ricco...

      Non che gli restasse molto da campare: aveva poco più di sessant'anni, ma decenni di stenti e rinunce lo avevano logorato nel fisico e nello spirito. Così, ne dimostrava venti in più. Era di statura infima, magro, ricurvo e malnutrito: la sua pelle era cadaverica, i suoi arti, deboli e tremanti. Era quasi completamente sdentato, ma non portava protesi: preferiva così, non poteva concepire che si impiegasse dell'oro, il nobile araldo della ricchezza, per dei miseri denti. Aveva serie difficoltà a mangiare? Ancora meglio, avrebbe speso meno danaro in effimere vivande.

      Non vi erano dubbi, Aaron era proprio un uomo generoso. Aveva dato tutto se stesso per i soldi: per loro, si era speso senza risparmiarsi, in anima e corpo, e in cambio, non aveva mai chiesto nulla. Li aveva messi al sicuro, li aveva protetti, coltivati, coccolati e, mai e poi mai, li aveva sperperati.

      Era necessario che il suo negozio apparisse esattamente come lui: vecchio, ripugnante, inutile e malandato. Quale fuorilegge avrebbe mai potuto bramare di rapinare un posto del genere? E poi, anche se lo avesse fatto, non avrebbe trovato nulla: Danny, così chiamava il suo adorato tesoro, era al sicuro altrove.

      Ripose il libro mastro nel cassetto della scrivania tarlata e si sollevò dalla sedia con un gemito. In piedi non era tanto più alto che da seduto. Indossò il piccolo copricapo di stoffa nera e afferrò il bastone da passeggio, praticamente una stampella per lui. Anche questo era malmesso: le sporadiche macchie di vernice rimaste testimoniavano che un tempo fosse laccato, ma ormai non era altro che un asta di legno scorticata con una testa in ottone ossidato.

      Era intento a chiudere gli infissi, quando intravvide una grossa sagoma attraverso il vetro lordato da anni di sporco mai lavato. Come sempre, ebbe un brivido. Aaron asseriva di ripudiare l’uso delle armi, quindi non le usava: la realtà era che non aveva neanche la forza di sollevare una pistola senza tremare, figuriamoci di sparare. Comunque, non ripudiava affatto che altri le utilizzassero al posto suo per le faccende inerenti i suoi affari.

      «Ripulite l’argento, qui?» Entrando, il cliente aveva esordito con la frase che presupponeva la necessità di riciclare merce di dubbia provenienza. La porta era così minuscola che l’omone dovette chinarsi e torcersi per entrare.

      «E non solo quello. Ah, sei tu, Hugg.» Aveva già lavorato per lui e sempre come ricettatore, purtroppo: il più delle volte si trattava di effetti personali sottratti a chissà chi o piccole refurtive. Una cosa era certa, quell’uomo era un vero spilorcio, spaccava il cent: condurre affari con lui era, a dir poco, spiacevole.

      Con il riciclaggio Mansill guadagnava abbastanza, ma i veri introiti li faceva con i prestiti. Prestare danaro era come coltivare i fagioli: metti un seme nella terra e se è fertile, ne ottieni un sacchetto pieno. Il suo piccolo contributo finanziario ai desideri del cliente era il seme, il vano ottimismo degli stolti era la terra fertile e gli interessi erano il concime. A prima vista, verrebbe da pensare che Aaron fosse un uomo troppo attaccato ai beni materiali; tuttavia non era così: i tassi d’interesse non sono fisicamente tangibili, sono un concetto astratto, eppure li adorava quasi al pari del denaro stesso. Li rispettava con diligente dedizione, quindi, che male c’era, se pretendeva che anche le persone in affari con lui facessero lo stesso?


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