Il Giudice E Le Streghe. Guido Pagliarino

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Il Giudice E Le Streghe - Guido Pagliarino


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ogni mio stipendio.

      Mai l’assassina di mia madre e delle mie matrigne era stata trovata, ma ad ogni arresto di strega il mio cuore aveva esultato. Ricordo che, la volta che ci avevano portato Elvira, avevo esclamato innanzi ad Astolfo Rinaldi: "Cavare augello a un galantuomo! Ah! Ma sarà fatta giustizia." Al principale era sfuggito un breve sorriso, che io avevo inteso come: "Sì, adesso ci pensiamo noi"; e aveva detto: "Boccaccio". Sapevo ch'egli era grande estimatore del Decamerone, testo che allora, prima che nel 1559 Paolo IV introducesse l'Indice dei Libri Proibiti, era di libera lettura; ma non conoscevo ancora quell'opera e non avevo capito quanto il giudice aveva sottinteso; né avevo osato chiedere lume, per non apparire incolto. Per me, amavo opere severe e, soprattutto, l'Inferno di Dante che mi pareva quasi un simbolo dell'eroica opera mia contro il maligno e chi s’era intricato ne la sua “selva oscura”.

      Elvira era stata catturata e imprigionata secondo la prassi. Il capo dei gendarmi, con due guardie armate e un domenicano inquisitore, aveva bussato alla sua porta. Non appena aperto, senza neppure darle il tempo di parlare l'avevano imbavagliata, legata, condotta a Roma e qui segregata a pane e acqua in una cella dell’Inquisizione, in attesa del procedimento. Dopo la condanna religiosa, ci era stata consegnata per il processo secolare, cui erano stati presenti, oltre a me e al Rinaldi, l'inquisitore e i due testimoni, il Brunacci e il piovano, già da noi interrogati. Tutti eravamo celati all'imputata, ma in modo di poterla vedere e parlare con lei per apposite aperture. La strega aveva innanzi solo gli aguzzini. Subito, su ordine del Rinaldi, avevo puntato alla prova suprema, la confessione. L'inquisita era già stata legata, ignuda, in posizione tale da poter raggiungere con tormenti qualsiasi parte del suo corpo. Non appena udita la mia voce e prima ancora ch'io avessi minacciato tortura, Elvira aveva tutto confessato. Non me n’ero stupito: sapevamo che pure presso l’Inquisizione, s’era comportata così. Mi aveva detto d'essere strega da ormai quattordici anni e, rispondendo a mie precise domande secondo la casistica del Martello delle Streghe, aveva ammesso d'aver ucciso e danneggiato bestiame e coltivazioni; d'essere assassina di uomini e infanti maschi; che s'ungeva la vergogna con magico grasso, quivi infilzava il manico d’una ramazza e, grazie a quegli artifici, volava al sabba dei diavoli, cui il principe nero in persona partecipava e vi era adorato da lei e da altre scellerate; e che il maligno, dopo che l’assistente al deretano gli aveva alzato la coda e ogni presente gli aveva debitamente reso omaggio baciandogli la putente cloaca, con ciascuna delle streghe si congiungeva, secondo e insieme contro natura tramite il suo biforcuto organo maschile; e ch'ella maliarda teneva in una gabbia, invisibili a ognuno fuor che a lei e al demonio, i membri virili di tutti gli uomini che aveva stregato, oltre venti, i quali si muovevano come uccelli vivi e mangiavano avena e grano; e che il diavolo veniva ogni tanto da lei a rimirarli per divertimento. Le avevo infine domandato se lucifero le si fosse manifestato nella famigerata forma del “bel Lodovico”, cioè “uomo in tutte le membra, eccetto ne’ piedi, li quali sempre parevano piedi di oca, rivoltati a dietro e riversati per cotal modo che era rivolto a dietro quel lo suole esser davanti”. Aveva risposto di sì. Rea confessa di peccati e, insieme, di reati d'ogni sorta, primi l'omicidio e la mutilazione di cristiani, come si sarebbe potuto non abbruciarla? D'altronde, avend’ella subitamente confessato, le s’era concessa la grande misericordia d'essere strangolata prima dell'accensione del fuoco. Ciò nonostante, una volta al palo, appena prima d’essere strozzata dal boia con la corda che le cingeva la gola, aveva maledetto tutti noi. Io allora non me n'ero dato pena, sapevo che la confessione era prova suprema; ed ero stato, come sempre, orgoglioso del buon servizio reso a Dio e, in lui, alla memoria di mia madre.

      Talmente ero rimasto sicuro del gravissimo pericolo della stregoneria che, tempo dopo, nel 1525, avevo pubblicato un Tractatus de Sortilegis quale documentazione e ammonimento. Quest’opera aveva accresciuto, ahimè! la mia buona fama presso l'Inquisizione papale monastica.

      Una cosa però devo aggiungere, in nome della verità: non ho inteso, manifestando doglianza, che sempre i fenomeni diabolici fossero e siano mera apparenza. Anzi, io in persona, agghiacciato, assistetti una volta a un fatto di possessione indubitabile, che più avanti narrerò; e di sicuro un processo, di cui pure dirò, vide imputati dei verissimi servi di satana. Sono ormai certo tuttavia che, per la maggiore parte, streghe e stregoni non furono tali e, dunque, che errai quasi ogni volta.

      Il dubbio cominciò a nascere cinque anni dopo la pubblicazione del mio tomo.

      Era il secondo pomeriggio d'una tepida giornata di fine inverno, ormai quasi al tramonto. Tornando a casa, al mio solito a piedi, m'ero soffermato nel gran mercato di alimenti e tessuti che occupa tutta la piazza del tribunale. Era quella l'ora in cui le bancarelle smobilitano e si può trovare cibo a minor prezzo. Comprata una bella pollastrina viva, che m’ero fatta uccidere, me la conducevo verso casa pendula innanzi, tenendola per le zampe nel pugno destro, mentre nel sinistro stringevo, come sempre quando incedevo, l'elsa della mia spada. Intendevo apparire, come ogni volta, fiero e potente nonostante l'imbarazzo di quel pennuto; e debitamente ognuno m'aveva fatto ala e tanto di cappello, sia sulla piazza sia nel resto della via; salvo... Ebbene, un infante sconosciuto, ero ormai quasi a la porta della mia dimora, non s'era scansato! Anzi, m’aveva urtato ed era corso via senza chiedere venia nonostante un mio offeso: “Poffarre!”; di più, quand’era ormai di molte braccia lontano confuso nella folla, avevo dovuto subire l’onta vile d’una certissima pernacchia. Solo poi avrei compreso ch'era stato quello un segno del Cielo contro la mia superbia e, fors'anche, della visita che, di lì a poco, avrei ricevuto; ma al momento, m’ero illividito.

      Una volta a casa, un appartamento nei pressi del tribunale dove abitavo solo e con un solo servitore, dismessa l’ira col bagnarmi la testa d’acqua fredda, raccomandai al servo l'attenta cottura arrosto della pollastrina. Non era stagione, altrimenti avrei comandato di friggerla nel sugo di quel novissimo frutto che alcuni chiamano il pomo di oro1 ma in realtà, quando giustamente maturo, è rosso inferno, tanto che, come mi era stato riferito mesi prima da una spia, il popolino, ben inteso quando sa di non essere udito, usa chiamare quello splendido piatto “er pollo a la dimonia”1 ma i demonologi, subito da me interpellati, assaggiato quel cibo con assoluto scrupolo, ripetutamente, avevano concluso che in quell'ottima pietanza il maligno non aveva dimora e che ogni cristiano poteva mangiarne senza peccato, purché non con gola.

      M'ero appena infilato a mio comodo entro la veste da camera e, assiso sulla scranna del mio studio, attendendo il desinare m'accingevo a riprendere una tralasciata lettura de L’Orlando Furioso, quando bussarono all'uscio.

      Il servitore m'annunciò la visita dell'avvocato Gianfrancesco Ponzinibio. Era questi il malfamato autore d'un trattato contro la caccia alle streghe, stampato una decina d'anni prima, che io non avevo letto ma conoscevo dai veementi attacchi del teologo Bartolomeo Spina, domenicano gran cacciatore di maligne, contenuti nella sua Quaestio de Strigibus, pubblicata un biennio dopo quell’empio tomo. Le critiche del monaco molto avevano posto a rischio lo sciocco avvocato, anche perché lo Spina era importante e ascoltato funzionario del Medici da Milano che, proprio in quel 1523, era stato eletto papa col nome di Clemente VII e che l’aveva presto levato a cardinale e, dopo non molto, a Grande Inquisitore.

      Va ora detto che io non ero più un inesperto magistrato ma tutto ormai, quale Giudice Generale, mi stava sottoposto nel tribunale di Roma, poi che anch’io ero aumentato, tre anni prima, nella stima di Clemente. Infatti, durante il gran sacco dell'Urbe attivato dagli Imperiali nel 1527, m’ero adoperato, a rischio della vita, per porre a salvamento i documenti dei processi in corso e di quanto possibile dei passati. Proprio per questo mio potere nel tribunale, come avrei inteso, il Ponzinibio s'era rivolto a me. Ciò aveva osato perché, ormai, egli era forte della protezione di un altro domenicano, l'austero monsignor Gabriele Micheli, ventiseienne soltanto ma assai dotto, potente e stimatissimo nell'Urbe.

      Per rispetto al vescovo, che oltretutto già allora godeva fama di santo, ricevetti il Ponzinibio.

      Nel suo trattato l'avvocato aveva negato la realtà dei sabba e delle


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