Il ritorno di Zero. Джек Марс

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Il ritorno di Zero - Джек Марс


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svoltò a sinistra, correndo più veloce che poté, guardandosi ogni tanto alle spalle senza vedere l'agente.

      Mentre uscì nella strada successiva, vide un taxi giallo.

      L'autista quasi sputò il suo caffè quando lei si precipitò sul sedile posteriore e gridò: “Metta in moto! Per favore, metta in moto!”

      “Gesù Cristo, signora!” la rimproverò. “Mi ha spaventato a morte...”

      “Qualcuno mi sta inseguendo, per favore, metta in moto”, supplicò lei.

      Lui si accigliò. “Chi la sta inseguendo?” L'autista, irritante, si guardò intorno. “Non vedo nessuno...”

      “Per favore, metta in moto e basta!” strillò lei.

      “Ok, ok!” Il tassista si spostò e il taxi virò nel traffico facendo suonare altri clacson che non avrebbero fatto altro che indicare all'agente la sua posizione.

      Mentre si girava sul sedile per guardare fuori dal parabrezza posteriore vide l'agente che girava l'angolo correndo. Rallentò e i suoi occhi incontrarono quelli di lei. Una delle sue mani si infilò per un attimo nella sua giacca, ma sembrò pensarci due volte prima di estrarre una pistola in pieno giorno, poi si portò una mano all'orecchio per chiamare qualcuno.

      “Giri a sinistra”. Karina ordinò al tassista di svoltare, passare qualche altro isolato, svoltare a destra e poi saltò di nuovo fuori mentre lui le urlava di pagare. Corse giù per l’isolato e lo fece altre tre volte, saltando sui taxi e uscendo fino a quando non ebbe attraversato Washington con un percorso così tortuoso da essere certa che quell'agente dei servizi segreti non sarebbe riuscito a trovarla.

      Trattenne il respiro e si lisciò i capelli mentre rallentava a passo svelto, tenendo la testa bassa e cercando di non sembrare terrorizzata. Lo scenario più probabile era che l'agente avesse ottenuto il numero di targa del taxi e che lo sfortunato tassista (sebbene un po' lento) venisse fermato, controllato e interrogato per assicurarsi che non facesse parte di un piano di fuga.

      Karina si infilò in una libreria, sperando che nessuno si accorgesse che era senza scarpe. Il negozio era tranquillo e gli scaffali erano alti. Si diresse rapidamente verso la parte posteriore, si diresse in un bagno, si spruzzò dell'acqua sul viso e si sforzò di trattenere le lacrime.

      La sua faccia era ancora pallida per lo shock. Con che velocità la situazione era precipitata.

      “Bozhe Moy”, sospirò pesantemente. Mio Dio. Mentre l'adrenalina svaniva, la piena gravità della sua situazione la colpì. Aveva sentito cose che non avrebbero mai dovuto lasciare nel seminterrato della Casa Bianca. Non aveva alcun documento. Nessun telefono. Nemmeno un soldo. Cavolo, non aveva nemmeno le scarpe. Non poteva tornare al suo hotel. Anche mostrare il suo viso in qualsiasi spazio pubblico dove avrebbe potuto esserci una telecamera era rischioso.

      Non avrebbero smesso di cercarla, dato ciò che sapeva.

      Ma aveva le perle dei suoi orecchini. Karina si toccò distrattamente il lobo sinistro, accarezzando quella pietra liscia. Conosceva le parole pronunciate in quell'incontro, ed erano ben più di un lieve ricordo. Aveva la prova del fatto che il presidente americano, un presunto liberale democratico che si era guadagnato l'ammirazione del paese, non era altro che un burattino nelle mani dei russi.

      Lì nella toilette femminile di una libreria del centro, Karina si guardò allo specchio mentre mormorava disperatamente: “Ho bisogno di aiuto”.

      CAPITOLO UNO

      Zero si sedette sul bordo del letto matrimoniale e si strinse nervosamente le mani in grembo. Ci aveva già pensato molte volte, l'aveva provato mille volte nella sua mente. Eppure, era ancora lì.

      Le sue due figlie adolescenti erano sedute sul letto vicino al suo. Erano in una stanza del Plaza, un hotel di lusso appena fuori Washington. Avevano deciso di dormire lì invece di tornare a casa a seguito dell'attentato alla vita del presidente Pierson.

      “Vi devo dire una cosa”.

      Maya aveva quasi diciassette anni. Aveva i capelli castani e i lineamenti del viso di suo padre, lo spirito acuto e il sarcasmo pungente di sua madre. Lo guardò passivamente, con un'ombra di preoccupazione.

      “Non è facile da dire. Ma avete il diritto di saperlo”.

      Sara aveva quattordici anni e viveva i conflitti dell'età in cui ci si avvicina alla pubertà. Aveva ereditato i capelli biondi di Kate e il suo viso espressivo. Assomigliava sempre di più a sua madre ogni giorno che passava, e al momento sembrava nervosa.

      “Riguarda vostra madre”.

      Entrambe ne avevano passate molte, erano state rapite e avevano assistito a omicidi e più volte era stata loro puntata la canna di una pistola in fronte. Nonostante tutto, erano sempre state forti. Meritavano di saperlo.

      Perciò lo disse loro.

      L'aveva provato tante volte nella sua mente, ma per lui era ancora difficile trovare le parole. Arrivavano lentamente, come tronchi alla deriva sul letto di un fiume. Pensava che una volta iniziato sarebbe stato più facile, ma non era affatto così.

      Lì nell'hotel Plaza, mentre Alan andava a prendere le pizze e a pochi passi da loro una TV trasmetteva una sitcom, Zero disse alle sue figlie che la loro madre, Kate Lawson, non era morta per un ictus ischemico come tutti pensavano.

      Era stata avvelenata.

      La CIA l'aveva uccisa.

      Per colpa sua. Dell'agente Zero. Per le sue azioni.

      E la persona che l'aveva uccisa...

      “Non sapeva nulla”, disse Zero alle sue figlie. Fissò il copriletto, il tappeto, qualsiasi cosa che non fossero i loro occhi. “Non sapeva chi fosse. Gli avevano mentito. Non lo seppe fino a più tardi. Fino a quando non ebbe compiuto il fatto”. Stava farfugliando. Stava accampando scuse per l'uomo che aveva ucciso sua moglie, la madre delle sue figlie. L'uomo che Zero aveva lasciato fuggire invece che ucciderlo.

      “Chi?” La voce di Maya si fece roca, come un sussurro aspro, era più un suono che una parola.

      L'agente John Watson. L'uomo che aveva salvato la vita delle sue figlie più di una volta. Un uomo che avevano conosciuto, a cui volevano bene di cui potevano fidarsi.

      Il silenzio negli istanti successivi fu terribile, e a Zero sembrò una mano invisibile che gli stringeva il cuore. L'unità di aria condizionata della camera d'albergo si animò all'improvviso, forte come un motore a reazione nel vuoto.

      “Da quanto tempo lo sai?” Il tono di Maya era diretto, intransigente.

      Sii sincero. Questa era la posizione che voleva avere con le sue ragazze. Onestà. Non importa quanto male faccia la verità. Quella confessione era l'ultima barriera tra di loro. Sapeva che era tempo di abbatterla.

      Sapeva già che le avrebbe distrutte.

      “So da tempo che non è stato un incidente”, disse loro. “Non sapevo chi fosse stato. Ed ora lo so”.

      A quel punto osò alzare lo sguardo e guardare i loro volti. Sara piangeva in silenzio, senza emettere alcun suono mentre le lacrime le rigavano le guance. Maya si fissava le mani, senza espressione.

      Lui le prese la mano. Era l'unica cosa che aveva senso fare in quel momento. Per avere un contatto.

      Ricordava esattamente cosa fosse successo. Mentre le sue dita si chiudevano attorno alle sue, lei si era allontanata con violenza. Si era girata ed era saltata giù dal letto. Sara aveva sussultato, sorpresa, mentre Maya gli diceva che lo odiava. Mentre gli rivolgeva i peggiori insulti. E lui era rimasto seduto, e se li era presi, perché era quello che si meritava.

      Questa volta non accadde nulla di tutto ciò. Mentre le sue dita si chiudevano attorno alle sue, la mano di Maya si dissolse nella sua come nebbia.

      “No...”

      Cercò di raggiungerla, ma lei svanì sotto


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