Pagine sparse. Edmondo De Amicis
Читать онлайн книгу.era un misto di sardo, di lombardo e d'italiano, tutte frasi tronche, parole mozze e contratte, verbi all'infinito buttati là a caso e lasciati in aria, che facevano l'effetto del discorso di un delirante. Un giorno mi venne a cercare un amico all'ora del desinare, ed entrando in casa, gli domandò: — A che punto è del desinare il tuo padrone? — Trema! — gli rispose il soldato. — L'amico rimase colla bocca aperta. Quel trema voleva dire termina.
In cinque o sei mesi, frequentando le scuole reggimentali, aveva imparato a leggere e a scrivere stentatamente. Fu la mia disgrazia. Mentre ero fuor di casa, s'esercitava a scrivere sul mio tavolino, e soleva scrivere cento, duecento volte la stessa parola, una parola, per il solito, che il giorno prima aveva sentito pronunciar da me leggendo, e che gli aveva fatto impressione. Una mattina, per esempio, lo colpiva il nome di Vercingetorige. La sera, rientrando in casa, io trovavo Vercingetorige scritto sui margini dei giornali, sul rovescio degli stamponi, sulle fascie dei libri, sulle buste delle lettere, sulle carte del cestino, da per tutto dove aveva trovato tanto spazio da ficcarvi quelle quattordici lettere predilette dal suo cuore. Un'altra volta gli toccava il cuore la parola Ostrogoti e il giorno dopo la mia casa era invasa dagli Ostrogoti. Un giorno lo seduceva la parola rinoceronte e la mattina seguente la mia casa era convertita in un serraglio di bestie feroci. Ci guadagnai però da un altro lato, e fu di poter abbandonare l'uso delle croci che facevo con matite di vario colore sulle lettere che doveva portare a mano a certe persone fisse, perchè non c'era verso di fargli ritenere i nomi; per cui egli soleva dire: questa lettera va alla signora celeste (ch'era mondana), questa al giornalista nero (ch'era rosso), questa all'impiegato giallo (ch'era al verde).
Ma a proposito dello scrivere gliene scopersi una assai più curiosa di quelle che ho citate finora. Si era comprato un quadernino, sul quale copiava, da tutti i libri che gli venivano alle mani, le dediche degli autori ai parenti, badando sempre a sostituire ai nomi di questi, il nome di suo padre, di sua madre o de' suoi fratelli, ai quali s'immaginava di dare in tal modo uno splendido attestato di affetto e di gratitudine. Un giorno apersi il quaderno e vi lessi, fra le altre, le dediche seguenti: — Pietro Tranci (era suo padre, contadino), Nato in povertà, Seppe collo studio e colla perseveranza Acquistarsi un posto segnalato fra i dotti, Soccorrere genitori e fratelli, Degnamente educare i figli. Alla memoria dell'ottimo padre Questo libro intitola L'autore Antonio Tranci, invece di Michele Lessona. In un'altra pagina: — A Pietro Tranci mio Padre Che annunziando al Parlamento subalpino Il disastro di Novara Cadeva svenuto al suolo, E tra pochi giorni moriva Consacro questo Carme, ecc. — Più sotto: — A Cagliari (invece di Trento) Non ancora rappresentata nel Parlamento italiano, ecc. Antonio Tranci, invece di Giovanni Prati.
Quello che mi meravigliava di più in lui, — che non aveva mai visto nulla, — era una assoluta mancanza del sentimento della meraviglia, qualunque cosa, per quanto straordinaria, egli vedesse. Vide, nel tempo che stette a Firenze, le feste per il matrimonio del Principe Umberto; vide l'opera e il ballo alla Pergola (non aveva mai visto un teatro); vide le feste del carnevale e l'illuminazione fantastica del viale dei Colli; vide cento altre cose nuove affatto per lui, che avrebbero dovuto stupirlo, divertirlo, farlo parlare. Nulla di tutto questo. La sua ammirazione non andava mai più in là della solita formola: — Non c'è male. — Santa Maria del Fiore.... non c'è male; la Torre di Giotto.... non c'è male; il palazzo Pitti.... non c'è male. Io credo che se Domeneddio in persona gli avesse domandato che cosa gli pareva della creazione, gli avrebbe risposto che non c'era male.
Dal primo all'ultimo giorno che stette con me, fu sempre dello stesso umore, tra serio ed allegro; sempre docile, sempre stordito, sempre puntuale a capire le cose a rovescio, sempre immerso in una beata apatia, sempre stravagante ad un modo. Il giorno che ricevette il suo congedo, scribacchiò non so quante ore nel suo quaderno colla stessa tranquillità degli altri giorni. Prima di partire venne ad accomiatarsi. La scena della separazione fu poco tenera. Gli dimandai se gli rincresceva di lasciar Firenze. Mi rispose: — Perchè no? — Gli dimandai se tornava a casa volentieri. Mi rispose con una smorfia che non capii.
— Se avrà bisogno di qualche cosa, — disse all'ultimo momento, — scriva pure che mi farà sempre piacere. — Grazie tante! — gli risposi. E così uscì di casa, dopo più di due anni che stava con me, senza dar il menomo segno nè di rincrescimento, nè di allegrezza.
Io lo guardai mentre scendeva le scale.
Tutt'a un tratto si voltò.
— Stiamo a vedere, — pensai, — che il suo cuore s'è svegliato e che ritorna a congedarsi in un altro modo.
— Signor tenente, — disse: — il pennello per la barba l'ho messo nella cassetta del tavolino più grande.
E disparve.
BATTAGLIE DI TAVOLINO
Un giorno un mio amico mi disse: — Tu non studii abbastanza; tu leggi; leggere non è studiare; leggere è un piacere, e studiare è una fatica: infatti tutti leggono e pochissimi studiano. Quali sono le ore della giornata che tu dedichi a uno studio profondo? a quel lavoro di figgersi nella mente le cose lette, di pensarle, di rimestarle, di raffrontarle, di spremerne il sugo? a quella fatica di raccogliere cognizioni precise, di formarsi giudizî proprî, di combattere, ragionando, i giudizî altrui, che dissentano da' tuoi? Tu con la mente non lavori, ti balocchi.
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A vent'anni quante ragioni si trovano da opporre a questi consigli! I libri, i libri! O che si vive pei libri? Io ho del sangue nelle vene, io ho bisogno d'aria e di luce, io voglio leggere il gran libro della vita. Prima di studiare bisogna vivere. Perchè legarmi a questo strumento di tortura ch'è il tavolino? La vita è moto; chi si muove è sano, chi è sano è allegro, chi è allegro è buono, e chi è buono è più caro a Dio e più utile agli uomini che questi eremiti della società che si sono logorati sui libri, pieni di vanità, gonfi d'orgoglio e svogliati d'ogni cosa.
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Le prime lotte son dure. Voi avete preso la risoluzione di studiare, date un addio agli amici, correte a casa, aprite un libro. A un tratto sentite non so che dentro di voi che dà indietro, che si raggomitola, che si scontorce. Voi ravvicinate la seggiola, e vi ripiegate sul libro, e vi sentite sbalzato indietro daccapo. V'è qualcuno dentro di voi, un nemico sordo, muto, cocciuto, che s'impenna, s'ostina, non vuole intendere ragione; un poltrone che si dibatte come se lo trascinassero al supplizio. E la lotta dura molto tempo e diventa accanita fino a farvi morder le dita e picchiare il pugno nel muro senza quasi sentirne dolore, come se veramente quelle offese non fossero fatte a voi, ma all'altro; e voi foste intimamente persuaso che siete in due: un capitano animoso e un soldato vigliacco.
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Poi si provano le prime gioie della vittoria. Vien sempre il momento in cui l'io che vuole, traendo dall'ira la forza che non aveva potuto trarre dal proposito, grida un voglio così imperioso, che l'altro non osa più di ribellarsi, si acquatta, si annichilisce. Allora vi sentite in cuore una soddisfazione piena di alterezza e assaporate la voluttà del comando; provate un sentimento quasi di rispetto per voi medesimo, come se in voi ci fosse qualcuno più valoroso e più forte di voi.
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Dopo le prime lotte e le prime gioie, vengono i primi sconforti. Come nella mente del dotto una nozione chiama l'altra, e per poco che rimugini ne mette sottosopra una folla, ch'egli si fa sfilare dinanzi colla compiacenza d'un generale che passa in rassegna un esercito, o d'un avaro che conta le sue ricchezze; così nella mente di chi comincia a studiare una lacuna mette in un'altra lacuna, e il povero esaminatore di sè stesso, dopo aver molto errato nel vuoto, prova un sentimento di solitudine, che gli precide il coraggio e le forze. Da un dubbio di lingua a un dubbio di storia, da un dubbio di storia a uno di geografia, da uno di geografia a uno di fisica, e son tutte cose elementari, essenziali, necessarie, tali che, sebbene dalla maggior parte si