En torno a la economía mediterránea medieval. AAVV
Читать онлайн книгу.al saggio di P. Malanima, Storia economica e teoria economica, ivi, pp. 419-427 e per la Gran Bretagna al saggio di W.M. Ormrod, Governement Records: Fiscality, Archives and the Economic Historian, ivi, pp. 197-224.
21 C. M. Cipolla, Tra due culture, cit., pp. 91-92.
22 Ibidem, p. 33.
23 Si veda in proposito il bel volume degli Atti della XXXIV Settimana Datini, dedicato a Economia e energia secc. XIII-XVIII, a cura di S. Cavaciocchi, Firenze, Le Monnier, 2003, e il volume degli Atti della XL Settimana Datini, Le iterazioni fra economia e ambiente biologico nell’Europa preindusriale, secc. XIII-XVIII, Economic and Biological Interactions in Pre-industrial Europe, fron the 13th to the 18th Centuries, a cura di S. Cavaciocchi, Firenze, Firenze University Press, 2010.
24 C.M. Cipolla, Tra due culture, cit., p. 96.
25 R.A. Goldthwaite, The Economy of Renaissance Florence Baltimore, Md., The John Hopkins University Press, 2009; ed it. L’economia della Firenze rinascimentale, Bologna, Il Mulino, 2013.
26 Interessanti esempi di utilizzazioni di fonti letterarie e iconografiche in studi di storia economica sono contenuti anche negli Atti della XXVI e della XXXIII Settimana Datini, dedicati rispettivamente a Il tempo libero, economia e società (Loisir, Leisure, Tiempo libre, Frezeit), a cura di S. Cavaciocchi, Firenze, Le Monnier, 1995, e a Economia e arte, secc. XIII-XVIII, Firenze, Le Monnier, 2002.
27 Fondazione Istituto internazionale di storia economica «F. Datini» Prato, Atti della «Quarantunesima Settimana di Studi» 26-30 aprile 2009, a cura di S. Cavaciocchi, Firenze, Firenze University Press, 2010, pp. 608-609.
ALLE ORIGINI DEL FATTORE ITALIA: LAVORO E PRODUZIONE NELLE BOTTEGHE FIORENTINE DEL RINASCIMENTO
Giampiero Nigro Università degli Studi di Firenze
Il tema della capacità del design rinascimentale è tornato più e più volte nella riflessione sulle attuali potenzialità economiche dell’Italia e delle sue vocazioni manifatturiere. Imprenditori, economisti e sociologi, cogliendo l’utilità della storia, affermano che per irrobustire la qualità e la visibilità del made in Italy è necessario fare riferimento al gusto e alla capacità tecnica e artigianale che ebbe inizio durante il Rinascimento. Dunque l’italian factor trova i suoi precedenti storici nel design-thinking del Rinascimento fiorentino. A parte gli sgradevoli neologismi, ho sempre avuto l’impressione che il concetto di capacità nel disegno rinascimentale sia stato usato solo in quel limitato significato, come se i connotati dei tempi si fossero semplicemente estrinsecati sul piano dell’abilità artistica e della sensibilità estetica.
In effetti nella Firenze degli umanisti e degli artisti del Rinascimento, nella Firenze dei secoli XIV-XVI esisteva un insieme complesso di fattori economici, sociali e culturali che possiamo sintetizzare nella locuzione «fattore Firenze».
Per mostrare questo, dovrò richiamare l’attenzione su una parte della società fiorentina di allora. Non parlerò delle masse dei diseredati, ma di una porzione minoritaria della società, non piccola e fortemente diversificata, che a partire dalla peste del 1348 concorse alla ripresa economica e alla riduzione della polarizzazione della ricchezza. Un ceto intermedio che fu artefice e partecipe di forte dinamismo sociale.
Le condizioni economiche e il dinamismo che caratterizzavano la Città del Giglio nei secoli indicati possono essere colti esaminando i dati del Catasto del 1427 dai quali emerge che a Firenze 1/3 dei capi famiglia deteneva circa il 50 % della ricchezza accertata e che cento famiglie ne avevano il 16-17 %.1 Dunque nel Basso Medioevo la distribuzione era migliore di quanto potessimo aspettarci. Pensando al tempo attuale si rifletta sul fatto che, secondo Banca d’Italia, nel 2012 il 64 % della ricchezza in Italia era in mano al 10 % delle famiglie. Inutile soffermarsi sulla difficoltà di confrontare simili dati in modo corretto; mi limito a dire che essi hanno un valore almeno evocativo e ci aiutano ad affermare che Firenze era una realtà dotata di inusitata vitalità, di una dinamicità creata da quel largo strato sociale che ruotava attorno alle botteghe.
Ecco il nucleo dal quale intendo partire: la bottega;2 la bottega fiorentina, vista soprattutto nel suo funzionamento e che proverò a descrivere sinteticamente cercando di porre in evidenza gli elementi utili alla mia riflessione. Si trattava, nella maggioranza dei casi, di aziende gestite da quello che definiamo l’artigiano classico; un maestro in grado di agire nella condizione di operatore economico libero sul mercato, con un libero accesso alle materie prime e al consumatore finale. A differenza di quanto accadeva a molti produttori di fase nella manifattura tessile, quella autonomia consentiva l’adozione di strategie prive di condizionamenti se non quelli dei propri bisogni e stimoli culturali. Egli governava la sua bottega sulla base di un rapporto di tipo paternalistico che lo legava ai propri dipendenti: il garzone stabile, il lavorante a cottimo, l’apprendista. Persone che, sottolineo questo aspetto, erano fortemente partecipi dei processi produttivi in cui erano inserite. Non esisteva alcuna forma di alienazione dal lavoro che il mondo occidentale ha scoperto con la Rivoluzione Industriale. Possiamo quindi immaginare che, normalmente, dentro la bottega fiorentina di quei tempi ciascun addetto concorresse in modo consapevole e partecipato alla creazione dei prodotti finali, di quei beni che tanto spazio hanno avuto nell’immaginario dei nostri storici dell’arte, ma anche e soprattutto dei consumatori di allora. Si pensi a botteghe come quella di Donatello o del Cellini che gli storici dell’arte hanno chiamato scuole; erano scuole come tutte le altre, uguali alla piccola azienda di Girolamo di Lorenzo Talducci «facitore di scarpe in Por Santa Trinita»,3 uguali a una qualsiasi bottega di farsettaio. Al loro interno ogni pezzo veniva fabbricato in parte dal maestro in parte da chi collaborava con lui. Era un modello di organizzazione della produzione compartecipata che garantiva forti e inusitati elementi di creatività.
Altri aspetti fondamentali erano il tempo e il ritmo del lavoro. Si lavorava, di norma, quindici ore al giorno, dall’alba alla compieta, le ore ventuno secondo l’attuale modo di misurare il tempo.
Faccio un piccolo inciso su questo aspetto: da tempo era entrato in uso l’orologio, strumento razionale, indispensabile all’ormai evoluto mondo del lavoro, che consentiva di superare gradualmente le abitudini indotte dalle antiche quanto incerte misure del tempo tramandate nei conventi e nelle chiese. Molti orologi in Italia erano simili a quello sulla controfacciata del Duomo di Firenze, splendidamente dipinto da Paolo Uccello negli anni Quaranta del Quattrocento. Il quadrante contiene tutte le ore del giorno; le ore ventiquattro non corrispondevano all’attuale mezzanotte astronomica ma, secondo lo stile italico, scadevano al tramonto di ogni equinozio ed erano dipinte sulla parte inferiore dell’orologio (in corrispondenza delle nostre ore sei).4
Torniamo al tempo di lavoro; ho detto che la giornata era di quindici ore con tre intervalli: uno per asciolvere cioè per fare una piccola colazione, uno per il pranzo attorno a mezzogiorno (alla sesta delle ore canoniche) e uno per la merenda all’ora nona, cioè intorno alle quindici.
Le giornate lavorative nell’anno erano mediamente duecentocinquanta con un ritmo settimanale che si aggirava intorno a cinque giorni di quindici ore e il sabato di ben dieci ore.
Questi