Ndura. Figlio Della Giungla. Javier Salazar Calle

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Ndura. Figlio Della Giungla - Javier Salazar Calle


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parossismo della follia... Avevo così paura di soffrire, il terrore del dolore. Se dovevo morire volevo che fosse una cosa rapida, quasi lo desideravo per liberarmi della situazione in cui mi trovavo. Me lo meritavo. Mi sembrava che il sibilo fosse man mano più vicino, potevo anche sentire il fruscio delle foglie al suo passaggio, si stava dirigendo verso di me, ne ero sicuro. Quasi potevo sentire come scivolava sul mio corpo, salendo dalla gamba verso il mio collo, era quasi arrivato, stava per mordermi. Chiusi gli occhi per un momento e respirai profondamente, cercando di calmarmi. Poi riaprii gli occhi e, senza muovermi di un centimetro, li muovevo in tutte le direzioni cercando di localizzarlo. Finalmente riuscii a vederlo. Stava raggomitolato su un ramo di un albero tre metri alla mia destra, alto circa due metri. Muoveva solo la testa da un lato all'altro, come se stesse tenendo d’occhio qualcosa. Era di colore verde con un leggero tocco bluastro, un po' giallastro ai lati, con una lunga coda, poco più di un metro di lunghezza, e un corpo magro, come se fosse compresso lateralmente, quasi invisibile tra le foglie8. Quando scivolò lungo il ramo, vidi che aveva la pancia biancastra.

       Restai per un po' senza muovermi, in ascolto, finché mi convinsi che era lui quello che avevo sentito e il resto era stato il risultato della mia immaginazione. Mi alzai lentamente e scrutai il terreno per cercare un altro serpente, ma quello che vedevo era l'unico. Almeno l'unico che avevo localizzato. All'inizio pensai di fare una deviazione e di andarmene, ma poi mi ricordai che si diceva sempre che la carne di serpente aveva il sapore del pollo, che era molto buona. O almeno questo era ciò che i nonni raccontavano come storiella della guerra civile e della fame che avevano sofferto. Mi sembrò una buona opportunità per procurarsi del cibo e, se inoltre avrebbe avuto un buon sapore, sarebbe stato ancora meglio. Cercai un bastone lungo con una punta a "V" per cercare di tenergli la testa. Tolsi anche il coltello dalla tasca, lo aprii e lo misi sulla cintura dei miei pantaloncini. Trovai un ramo caduto adatto e gli diedi la forma che stavo cercando, tagliando un'estremità a forma di “V”, senza mai perdere di vista il serpente. Il processo di preparazione mi sembrò infinito e mi esaurii estremamente, sebbene in realtà non comportasse alcuno sforzo fisico considerevole.

       Quando fui pronto, mi avvicinai di soppiatto al serpente. Questo sembrò non accorgersene o mi ignorò, in ogni caso non mi prestò nessuna attenzione. Quando fui a circa mezzo metro di distanza, sollevai il bastone e lo colpii con tutte le mie forze sulla testa. Con il primo colpo rimase mezzo sospeso, così glie ne diedi altri due finché non cadde a terra. Poi gli agganciai la testa con la forchetta del bastone e premetti molto forte contro il terreno. Il serpente tremava convulsamente, sibilando senza sosta ed io ero terrorizzato. Se lo avessi lasciato per colpirlo a distanza con il bastone, avrebbe potuto attaccarmi, l'altra opzione era avvicinarmi e infilzarlo con il coltello. Raccogliendo il mio coraggio, mi avvicinai e calpestai la coda, premendola a terra nel tentativo di tenerla ferma. Mi chinai e conficcai il coltello appena sotto la testa dell’ofide, incollato al bastone, lasciandolo conficcato a terra. Tuttavia, continuava ad agitarsi, così tolsi il coltello e segai il suo collo fino a quando non separai la testa dal resto del corpo. Poi feci un salto indietro, temendo, ignaro, che potesse ancora attaccarmi. La coda continuava a dimenarsi senza sosta, sputando sangue dove prima c’era la testa. Lo colpii un paio di volte con il bastone, ma non gli importò, quindi decisi di lasciarlo lì per un po'. In meno di mezzo minuto, smise di muoversi gradualmente fino a quando fu completamente fermo. Gli diedi qualche colpetto con il bastone ma non si muoveva. Era decisamente morto. Finalmente riuscii a respirare tranquillo.

       Il mio primo trionfo nella giungla. L'uomo aveva dominato la bestia. Mi sentivo totalmente euforico, per un momento tutti i miei problemi si dissolsero come lo zucchero in un bicchiere di latte caldo. Da quel momento sapevo che sarei sopravvissuto e sarei uscito di lì. Ero un autentico avventuriero, un sopravvissuto nato. Nulla poteva impedirmi di uscire da quel labirinto verde e di tornare a casa, a casa. Ero stato sfidato da Madre Natura e avevo dimostrato il mio valore, la mia capacità di adattarmi e sopravvivere. Adesso lo sapevo, ero il vincitore di questo ineguale combattimento tra me stesso e gli elementi avversi.

       Presi il serpente e lo tagliai a metà con il coltello, tirando fuori le viscere il meglio che potevo, non senza abbastanza disgusto. Per questo, l’afferrai per un'estremità e mi girai a tutta velocità, voltandomi più volte rapidamente e facendo uscire le viscere che volavano in tutte le direzioni. Poi pensai che questo andava contro il mio piano di essere discreto e di non attirare l'attenzione, ma c'erano già resti di serpente dappertutto e non avevo voglia di raccoglierli. Ciò che restava, una volta finito di pulirlo con il coltello, provocandomi un paio di conati di vomito, era disgustoso. A quel punto lo scuoiai. Quando era pronto mi resi conto di un problema. Non potevo accendere un fuoco per cucinarlo, perché avrebbero scoperto la mia esistenza e la mia posizione, quindi avrei dovuto mangiarlo crudo. Scrutai la carne insanguinata scrupolosamente. Tagliai un bel pezzo e me lo misi in bocca. Se gli animali mangiavano cibo crudo anche io potevo. Masticai un paio di volte e sputai tutto. Era disgustoso! Aveva una consistenza simile alla plastica, come se stessi cercando di mangiare una bambola dalle mie sorelle o cartilagine mezza distrutta. Mi era sempre piaciuta la carne molto cotta, non ero mai riuscito a mangiarla poco cotta e quindi, tanto meno, completamente cruda. Quello che mi aveva sempre disgustato erano le cose con la stessa consistenza di quella carne: la pelle di pollo poco cotta, la pancetta, i calli...

       Totalmente deluso, presi tutti i resti del serpente e i resti del mio cibo e li seppellii. Poi ci gettai alcune foglie sopra per nasconderlo meglio. A cosa mi serviva procurarmi il cibo se non riuscivo a mangiarlo? Rischiare di essere morso da un serpente e ucciso, per cosa? Inoltre, c'era il problema dell'acqua. Dovevo trovare qualcosa da bere perché non smettevo di avere una sete terribile e mi rimanevano solo due bibite. Mi lasciai cadere a terra, sudando copiosamente per lo sforzo fatto per catturare il serpente. Sconfitto, bevvi una delle due bibite e lanciai la lattina. Che mi scoprano, dopo tutto è meglio morire crivellati che di fame, ci vuole meno. Inoltre, avevo sparso budella di serpente per un raggio di due metri. Addio al vincitore, addio al sopravvissuto nato, benvenuto al fallito che stava per morire in un giardino selvaggio. Me lo meritavo, per cui non potevo lamentarmi. Avevo ucciso i miei due migliori amici. Comunque sapevo di aver visto qualcosa in televisione a proposito dell'acqua nella giungla, mi ricordavo che avevano detto che era facile ottenerla in un modo specifico, ma non ricordavo come.

       Per un po' di tempo, che non calcolai, rimasi lì, seduto sul suolo, con le braccia appoggiate sulle ginocchia e la testa in giù, la mente vuota, lasciandomi andare. Rassegnazione, conformismo, abbandono, rinunciare a vivere. L’incidente aereo con la morte di Alex, vedere come crivellavano Juan, l'euforia del serpente e la conseguente delusione, stanchezza, sonno... Troppe cose praticamente in ventiquattro ore, troppe emozioni intense. Perché Juan era stato così stupido ed era uscito correndo così? Perché mi aveva lasciato solo? Almeno saremmo stati noi due e tutto sarebbe stato diverso; ma no, aveva dovuto cercare di scappare in quel modo così... così... Volevo andare a casa, chiudere gli occhi e trovarmi nel mio letto quando li avrei riaperti e tutto sarebbe stato un incubo più realistico del normale, un brutto sogno come qualsiasi altro, un aneddoto da raccontare quando esci con la tua ragazza e i tuoi amici nel pomeriggio. Mi misi a piangere, ma quasi non cadevano lacrime dai miei occhi.

       Perso, scoraggiato, deluso e consumato dalla stanchezza e dal sonno. Non sapevo cosa fare. Alla fine, per semplice automatismo, seppellii la lattina che avevo gettato e mi alzai per continuare a camminare, anche se a un ritmo molto più calmo, lasciandomi andare, quasi trascinando i piedi. Camminai e mi fermai a intermittenza fino a quando furono le otto di sera. Le soste erano ogni volta più lunghe, i momenti di camminata sempre più brevi. Usavo il bastone che avevo usato con il serpente come appoggio, alleviando così la pressione sul ginocchio infortunato, anche se in quel momento non sentivo più le gambe. Camminare per camminare, senza nemmeno provare a stabilire bene la mia direzione, dopo tutto, non sapevo con certezza come farlo e potevo quasi dire che non mi importava. Perché avevo dovuto convincerli a venire qui, perché? Non ascoltavo mai nessuno, dovevo sempre uscirmene con la mia. Guarda dove mi aveva portato la mia voglia di controllare tutto, di comandare tutto. Juan, idiota, perché eri uscito correndo così, suicidandoti? Questo era colpa tua, io non avevo niente a che fare con questo. Colpa tua. Tua.

       Quando non ne potei più, mangiai una scatola di mele cotogne intera e bevvi la lattina rimasta,


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