Il figlio del Corsaro Rosso. Emilio Salgari

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Il figlio del Corsaro Rosso - Emilio Salgari


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le avevano munite d’armi da fuoco, ma siccome non volevano imbattersi nei bucanieri, né impegnare mischie con loro, quando s’accorgevano della loro presenza preferivano fare delle scariche di moschetteria in aria.

      I cacciatori, avvertiti del pericolo, se ne andavano tranquillamente da un’altra parte.

      I governatori delle varie città, accortisi della gherminella, avevano tolto alle ronde le armi da fuoco, armandole solamente di alabarde, ma senza ottenere, come si può capire facilmente, alcun risultato pratico.

      Se prima erano i bucanieri che scappavano, ora erano gli alabardieri che se la davano a gambe appena udivano uno sparo; sicché i combattimenti erano rari come le mosche bianche, ché nessuno aveva il desiderio di giocare la pelle inutilmente.

      E quelle erano le famose ronde dette cinquantine, colle quali i governatori speravano di distruggere tutti i bucanieri, – ed erano molti – che infestavano le immense foreste dell’isola, sempre pronti a prestare man forte ai filibustieri della Tortue, quando si trattava di tentare qualche buon colpo

      Il guascone fece attraversare ai suoi due compagni una vasta piantagione di canne da zucchero, poi si gettò risolutamente in mezzo alle boscaglie, formate per lo piú da enormi piante di cotone selvatico, con i cui tronchi cavi gli indiani e i negri formavano canoe capaci di contenere perfino cento uomini.

      – Il corral lo troveremo di là da questa boscaglia – aveva detto il soldato al conte. – Risparmieremo tempo e non correremo il pericolo di imbatterci in qualche cinquantina. Cercate solo di non far rumore, poiché fra queste macchie i tori non mancano, e vi so dire io se sono pericolosi quando s’infuriano o vengono disturbati!

      La marcia non tardò a diventare difficilissima, con molto dispiacere di Mendoza, abituato a passeggiare solamente sulle tolde delle navi e ad arrampicarsi sulle alberature.

      A quei tempi San Domingo, al pari della vicina Cuba e della Giamaica, aveva delle foreste, antiche quanto il mondo, le quali accumulando foglie su foglie e imputridendo rami e tronchi, dovevano preparare quel meraviglioso ordimento vegetale, che piú tardi doveva cosí ben servire agli intraprendenti piantatori.

      I cotoni selvatici s’alzavano dovunque, mescolati, anzi confusi, con palme gigantesche, reggendo non si sa in quale modo i loro giganteschi fusti, non avendo per sostegno che una crosta di terra non più alta di due piedi affatto insufficiente alle smisurate radici.

      Erano soprattutto i foltissimi cespugli, vere macchie per le imboscate, che facevano brontolare Mendoza, anche perché si mostravano formidabilmente armati di acutissime spine.

      Il guascone, che aveva fatto parte piú volte delle cinquantine, per buona fortuna non esitava mai a scegliere la via, quantunque sotto quelle immense arcate di verzura regnasse un’oscurità quasi completa.

      – Ho la bussola nella testa – ripeteva sfondando a colpi di spadone i cespugli per aprire il passo al conte.

      E pareva infatti che quel diavolo d’uomo, che camminava con piena sicurezza senza mai fermarsi, avesse la facoltà d’orientarsi come i piccioni viaggiatori. Chi invece era incerto e non poco era Mendoza, il quale, quantunque uomo di mare, non ignorava come fosse facile smarrirsi in mezzo alle boscaglie.

      Quella marcia faticosissima durò tre ore, poi il piccolo drappello si trovò dinanzi ad una vasta pianura interrotta da un gran numero di stagni.

      Un fracasso indiavolato s’alzava fra le alte erbe e i canneti che la coprivano. Muggivano milioni di rospi, fischiavano le rane americane e di quando in quando, a tutto quel baccano, si univano delle urla rauche, somiglianti al fragore dei tamburi, dei cannoni.

      Il guascone si era arrestato, bestemmiando in francese o in spagnuolo.

      – Ehi, camerata, avresti per caso perduta la bussola che tu affermavi d’avere dentro il cervello? – chiese Mendoza.

      Il guascone stette un momento zitto, poi picchiandosi furiosamente la corazza che gli rinserrava il petto, rispose:

      – Pare proprio che si sia guastata.

      – Chi?

      – La mia bussola.

      – Ecco una faccenda seria per la gente di mare.

      – E anche qualche volta per la gente di terra, – rispose l’avventuriero, il quale appariva sconcertato. – Come mai mi sono smarrito? Eppure queste boscaglie le ho scorse piú volte.

      – Spero, don Barrejo, che non avrete l’intenzione di farci divorare dai caimani, – disse il signor di Ventimiglia.

      – Ci tengo alle mie gambe non meno di voi, – rispose il guascone. – Volete un consiglio, signor conte? Aspettiamo l’alba.

      – Ed intanto schiacciamo un sonnellino – aggiunse Mendoza. L’erba è folta e fresca e dormiremo meglio che su una branda della Nuova Castiglia.

      – E i caimani intanto cenerebbero con i vostri piedi – disse il guascone. – Non chiudete gli occhi, signore, ve ne prego. Io so come sono pericolose queste paludi!

      – Avete un sigaro, don Barrejo? – chiese il conte.

      – Sono ben provvisto, signor conte, ed è tabacco di Cuba, il migliore che si coltivi in tutto il golfo del Messico.

      – Datemene uno, e aspettiamo che il sole spunti. Spero che non ci farete perdere in mezzo alle boscaglie di San Domingo.

      – Zitto, signore!

      – Che cosa c’è ancora? Se è qualche caimano, lo taglieremo in due a colpi di spada. Anzi, non ho ancora visto lavorare la vostra draghinassa.

      – Altro che caimano! È una cinquantina che s’avvicina. Zitti!

      Tutti si misero in ascolto, dopo essersi gettati dietro l’enorme tronco d’un albero di cotone selvatico. Pareva che un grosso drappello uscisse dal bosco. Si udivano i passi pesanti e cadenzati di uomini abituati a marciare in colonna.

      – Adesso ci prendono! – borbottò Mendoza. – Che splendida passeggiata notturna! Era molto meglio restarcene a San Domingo.

      – Zitto, eterno brontolone! – sussurrò il conte. – Sai che le cinquantine non desiderano altro che di andarsene pei fatti loro. Non ti muovere, e vedrai che nessuno verrà a cercarti dietro a questa pianta.

      – Ben detto, signor conte, – disse il guascone. – D’altronde basterebbe sparare un colpo di pistola per far scappare quei poveri diavoli. Da quando i governatori hanno avuto la pessima idea di privarli delle armi da fuoco, non si sentono piú in grado né di darci, né di fare battaglia.

      – Purché non abbiano con loro dei cani, – disse Mendoza.

      – Ecco quello che temo, – rispose il guascone. – Voi avete però quattro pistole. Datene una a me e vedrete che scapperanno come lepri, benché non manchino di coraggio, questo ve lo assicuro io. Lo spagnuolo è sempre stato un buon soldato e nemmeno io, se avessi in mano una spada contro un buon bucaniere armato d’archibugio volterei le spalle, eppure sono un guascone.

      – Ricco di guasconate! – disse Mendoza, un po’ ironicamente.

      – Mi vedrete all’opera, camerata, – rispose il soldato, un po’ piccato. – Silenzio, s’avanzano.

      Un grosso drappello era sbucato di fra le canne e le erbe e avanzava lungo la fronte della foresta. Si trattava veramente d’una di quelle famose cinquantine, armate esclusivamente d’alabarda e di spade, senza nessuna bocca da fuoco. Era composta tutta di alabardieri con elmetto e corazza, difese affatto insufficienti contro le grosse palle dei bucanieri.

      Era preceduta da un doz di Cuba. Questi cani ferocissimi sono molto grossi, molto robusti e d’un coraggio a tutta prova, e gli spagnuoli li usavano specialmente contro gli indiani, i quali avevano una paura terribile di quelle bestiacce.

      A quei doz cubani si deve piú che altro la conquista delle numerose colonie del golfo del Messico. Si può anzi dire che la Colombia fu conquistata piú da loro che dagli avventurieri.

      Il cane, giunto in vicinanza del grosso albero del cotone, si era fermato,


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