La tigre della Malesia. Emilio Salgari

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La tigre della Malesia - Emilio Salgari


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all’oriente, segno che le nubi spossate cominciavano a lasciar un varco.

      Il pirata si spinse fino alla scala, accostò le dita alle labbra e, aspettando un momento in cui tutti quei fragori parevano acquetarsi, mandò un fischio prolungato, modulato, a cui vi rispose un secondo del tutto simile partendo fra le piante della pianura sottostante.

      – Il mio uomo è arrivato in buon punto. Perdeva la pazienza – brontolò Sandokan.

      Un’ombra si disegnò appié della tortuosa scala, che a poco a poco prese l’aspetto di un uomo avvolto in un gabbano di tela cerata. Aiutandosi colle mani e coi piedi come scimmia e lottando contro il vento che minacciava portarlo via per precipitarlo nell’abisso, giunse fino alla piattaforma.

      – Sei tu, Yanez? – domandò Sandokan movendogli incontro.

      – In persona – rispose quell’uomo, con l’accento straniero.

      I due valentuomini entrarono assieme nell’abitazione rinchiudendo la porta. Sandokan prese posto dinanzi la tavola empiendo due bicchieri, mentre l’altro, gettando in un canto il gabbano grondante acqua e una ricca carabina indiana, faceva altrettanto.

      – Alla tua salute, Sandokan! – esclamò egli tracannando in un sol fiato il liquore.

      – Alla tua, Yanez – rispose il pirata, ma non lo vuotò che a metà.

      Il nuovo arrivato non era abbronzato come il formidabile pirata, né si bello. Era un uomo di mezzana statura, ma agile come un’anguilla, allegro come lo poteva essere un marinaio che nuota nel lusso e si avvoltola nell’oro e con un misto di fierezza e di cortesia che lo facevano apparire a prima vista un nobile cavaliero. E infatti l’occhio non poteva ingannarsi; Yanez de Gomera era un nobile portoghese delle Celebe, uno di quegli uomini che emigrando aveano centuplicato il patrimonio e con che, divoratolo in pazzie e ridotto sul lastrico, aveva avuto il coraggio di farsi marinaio, trafficando con un piccolo prahos di poco valore fra le isole della Malesia. Era giunto ancora a raccozzare un po’ di oro col quale pensava d’impiantare una nuova fattoria a Borneo, quando cadde sotto le unghie di Sandokan, che per una di quelle bizzarrie inesplicabili, gli aveva lasciato la vita e, non contento di condurselo a Mompracem, aveva finito col farsene un amico, un confidente. Yanez de Gomera, un discendente degli antichi avventurieri del Portogallo, aveva finito col diventare un pirata come il suo padrone e amico. Non vi era arrischiata spedizione che egli non vi partecipasse quando Sandokan la guidava e l’ordinava, non vi erano ostacoli che lo arrestassero quando egli ve lo mandava. Era come un anello del formidabile pirata, pronto a farsi ammazzare per lui alla prima occasione, un uomo che aveva le medesime bizzarrie e i medesimi capricci e che aveva finito col chiamarlo fratello. Tra lui e il pirata non vi erano secreti; quei due uomini parevano nati l’un per l’altro: la morte sola avrebbe potuto dividerli.

      – Ebbene, Yanez, sono sei ore che ti aspetto – disse Sandokan, empiendo il bicchiere di lui.

      – La tempesta mi ha sorpreso alle Romades – rispose Yanez. – Vedi, Sandokan, il cattivo genio vi aveva messo la sua coda e soffiava come un’anima dannata sollevando il mare a prodigiosa altezza, sbattendo il povero prahos fino alle nubi. Si sudava sangue per impedire che il legno affondasse.

      Il formidabile pirata sorrise guardando suo fratello, il Portoghese, come lo chiamava lui.

      – Ti confesso che per poco vi lasciava la pelle. Eravamo sui frangenti dell’isola tanto da credere che il povero prahos vi si sfasciasse sopra, quando il buon genio ci ha spinti alla baia.

      – E la crociera? Tu, Yanez, mi promettevi dei prahos da saccheggiare, non è vero?

      Il Portoghese fece scoppiettare le dita come uomo contento, e tracannando il secondo bicchiere continuò:

      – Non aver fretta Sandokan; avrai la tua parte di cadaveri. Ieri mattina un Malese che pescava alle Romades, un pirata dalla faccia verde come un alligatore, è venuto a trovarmi a bordo del mio prahos con fare misterioso. Il brav’uomo, sicuro di guadagnarsi qualche bella perla, mi disse che al largo delle isole si vedevano delle vele. Non aveva terminato che già ripigliava il mare colla prua al sud; i miei uomini fremevano già come tigri, che fiutano del sangue.

      Sandokan si fece più attento. Le sue labbra poco prima sorridenti si ritrassero mostrando i denti.

      – Oh! Oh! – esclamò egli a mezza voce. – Tira innanzi, Yanez.

      – È presto fatto. Il vento a mezzodì, cangiò girando al sud e non fu più possibile avanzare che a forza di remi. Solamente verso sera, un’ora prima che la tempesta cominciasse a ruggire, giungemmo alla vista delle Romades, malaugurate terre che paiono protette dai cattivi geni. Le tenebre calavano come uno stormo di corvi, il mare montava spumeggiando, il vento ringhiava, ma la caccia non per questo si abbandonò. Tutti volevano vedere sangue.

      – E l’hanno veduto? – domandò Sandokan fattosi pensieroso.

      – No, per mille milioni di diavoli. Potemmo vedere al largo uno dei prahos che, a tutte vele spiegate, cercava approdare. Ti giuro, Sandokan, che aveva ventre rigonfio e portamento rispettabile. Ma il maledetto fu perduto di vista, ancor prima che si potesse abbordarlo. Le tenebre e la tempesta andavano allora d’accordo per aiutarlo, e chi sa ora dove si è cacciato.

      – Tanto meglio! Tanto meglio! – ripeté Sandokan sorridendo.

      – E perché, di grazia? – chiese Yanez lasciando andare un pugno sulla tavola.

      – Perché domani pure io prenderò parte alla festa. M’immagino ormai qual via tenevano quei legni e indovino quale sia il loro carico. Lo vedrai, Portoghese, almeno uno cadrà in nostre mani. I nostri tigrotti potranno bere sangue.

      – Bene, e poi dove si andrà? – chiese Yanez versandosi da bere.

      Il pirata parve pensasse, poi si alzò, fece due o tre volte il giro della stanza e toccò per la seconda volta la tastiera dell’armonium.

      Il Portoghese si accontentò di crollare la testa, e di sorseggiare il trasparente liquore, guardando distrattamente nel fondo del bicchiere.

      Accadeva spesso che la Tigre, per uno di quei capricci inesplicabili, suoi proprii, lasciasse sospesa la domanda e si racchiudesse in un ostinato silenzio, che alcuno sarebbe stato capace di rompere.

      – Lasciamolo suonare – mormorò l’avventuriero e, per non annoiarsi del tutto, andò a staccare una vecchia mandola, coll’intenzione senza dubbio di accompagnarlo.

      Non aveva ancor toccate le corde, che Sandokan cessò dal suonare. S’avvicinò bruscamente al tavolo, e guardando fissamente il Portoghese, gli domandò con voce alquanto sorda:

      – Hai veduto alcun pirata delle coste del Borneo?

      – Sì, ho veduto Akamba – rispose il Portoghese.

      – Che nuove di Labuan? Quegli avvelenatori di popoli, quei rubaterre, quei cani di Inglesi, sono sempre là accampati sull’isola?

      – Credi tu, Sandokan, che il capitano Rodney Mundy avesse fatto una inutile comparsa a bordo dell’Iris? Quei ladroni, dove gettano l’occhio, si fanno padroni.

      – Hai ragione Yanez. Ma di’ a loro, che muovan un dito contro Mompracem!… La Tigre della Malesia, se l’osassero, saprebbe bere tutto il sangue delle loro vene!

      – Lo so, Sandokan. Ascoltami ora.

      – Ti ascolto.

      – Sai che ho udito ancora parlare della Perla di Labuan?

      – Ah! – fe’ il pirata scattando in piedi. – Ecco la seconda volta che questo nome mi giunge agli orecchi e che tocca stranamente una corda sconosciuta del mio cuore. Sai, Yanez, che questo nome mi colpisce singolarmente? – Sai almeno che cosa sia questa Perla di Labuan?

      – No. Non so ancora se animale o donna. Ad ogni modo mi mette curiosità.

      – In tal caso, ti dirò che è una donna.

      – Una donna?… Non l’avrei mai sospettato.

      – Sì, fratellino mio, una giovanetta dai capelli castani profumati, dalle carni lattee, dagli


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