Le figlie dei faraoni. Emilio Salgari

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Le figlie dei faraoni - Emilio Salgari


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con tono autorevole. «Vieni!»

      Prese per una mano il giovane e si rimisero in cammino, attraverso una landa quasi sabbiosa, interrotta qua e là da qualche magro arbusto e da qualche palma semidisseccata.

      Né l’uno, né l’altro parlavano. Entrambi parevano molto preoccupati e fissavano, quasi nel medesimo istante, la stella caudata, che saliva lentamente in cielo scintillando vivamente.

      Dopo un quarto d’ora giungevano alla base d’una collina, priva di qualsiasi traccia di vegetazione, che s’alzava in forma di piramide e sulla cui cima si scorgevano delle statue di proporzioni colossali, giganteggianti nell’oscurità.

      «Vieni,» ripetè il vecchio sacerdote. «Questa è l’ora.»

      Mirinri si lasciò condurre, senza opporre resistenza. Dopo essersi inerpicati su un sentiero aperto nella viva roccia, si cacciarono entro una caverna poco spaziosa, illuminata da una piccola lampada di terra cotta foggiata come un ibis, l’uccello sacro degli antichi egiziani.

      Nessun lusso entro quello speco. Solo delle pelli di bufalo e di iena, che dovevan servire da letti, alcuni vasi in forma d’anfora, qualche spada corta e larga appesa alle pareti e qualche scudo di pelle di bue.

      In un angolo, su un fornello, improvvisato con quattro o cinque pietre, borbottava una pentola di forma strana, esalando un profumo non cattivo.

      Mirinri, appena entrato, si era lasciato cadere su una pelle di iena, prendendosi le ginocchia fra le mani ed immergendosi subito nei suoi pensieri. Il sacerdote invece si era fermato in mezzo alla caverna, guardando il giovane intensamente, con un’affettuosità inesprimibile.

      «Ti ho salutato mio signore,» disse con un accento strano, che suonava come un dolce rimprovero. «Lo hai dimenticato, Mirinri?»

      «No,» rispose il giovane, quasi distrattamente.

      «Eppure lo si direbbe. Quale pensiero profondo turba il cervello di colui che ho chiamato mio figlio ed a cui ho dedicato tutta la mia vita? Non senti dunque fremerti nelle vene il sangue divino dei Faraoni, i dominatori dell’Egitto?»

      Udendo quelle parole il giovane era scattato in piedi, tutto trasfigurato, fissando sul vecchio uno sguardo ardente.

      «Il sangue dei Faraoni, hai detto tu!» esclamò. «Impazzisci, Ounis.»

      «No,» rispose asciuttamente il vecchio. «È l’ora delle rivelazioni, ti ho detto. La stella caudata sale in cielo e la profezia si è avverata. Tu sei un Faraone!»

      «Io… un Faraone!» esclamò Mirinri impallidendo. «Sentivo io scorrermi nelle vene un sangue ardente, il sangue dei guerrieri! I miei sogni di glorie e di grandezze, che ogni notte, per anni e anni, hanno turbato i miei sonni, erano dunque veri! Grandezza! Potenza! Eserciti da comandare, regioni da conquistare… e lei… lei… quella divina fanciulla che mi ha stregato… È impossibile… tu mi hai ingannato, Ounis, tu ti sei riso di me!…»

      Il giovane si era coperto gli occhi con ambe le mani, come per sfuggire alla grande visione.

      Ounis gli si accostò e, scuotendolo dolcemente, gli disse:

      «Un sacerdote non può permettersi di scherzare con un uomo che ha nelle sue vene il sangue sacro di Osiride e che diverrà un giorno il suo signore. Siedi e ascoltami.»

      Mirinri obbedì, lasciandosi cadere su una pelle di gazzella che copriva il piccolo sedile d’argilla seccata al sole.

      «Parla,» disse. «Spiegami come io possa essere un Faraone e perché sono cresciuto qui, sui margini del deserto, lontano dagli splendori di Menfi, come fossi il figlio d’un miserabile pastore.»

      «Perché se tu fossi stato lasciato laggiù, probabilmente a quest’ora non saresti più vivo.»

      «Perché?» chiese Mirinri scattando.

      «Perché a Menfi non regna più, già da undici anni, Teti, il fondatore della sesta dinastia. Un miserabile ha usurpato il trono a tuo padre.»

      «Io, figlio di Teti!» esclamò il giovane impallidendo. «Sogni tu, Ounis o continui lo scherzo?»

      «Non ti ho forse baciato il lembo della tua veste? Tu vorrai delle prove? Ebbene io te le darò. Domani, prima dell’alba, noi ci recheremo a interrogare le statue di Memnone e tu udrai la pietra a suonare dinanzi a te. Ne vuoi un’altra? Andremo alla piramide che tuo padre ha fatto erigere ed io farò rivivere in tua presenza il fiore meraviglioso d’Osiride, quel fiore che solo dinanzi ai Faraoni dischiude le sue corolle, quando vi lasciano cadere una goccia d’acqua. Se la pietra vibrerà ed il fiore rivivrà, sarà segno che sei figlio di re. Lo vuoi?»

      «Sì,» rispose Mirinri tergendosi il sudore che gli bagnava la fronte. «Solo dinanzi a quelle due prove io ti crederò.»

      «Sta bene,» rispose il sacerdote. «Ora ascolta la storia di tuo padre e la tua.»

      Stava per aprire la bocca, quando i suoi occhi scorsero il simbolo di vita e di morte che il giovane si era appeso alla correggia che gli stringeva il fazzoletto un po’ sopra la fronte.

      «Un ureo!» esclamò. «Dove hai raccolto quel simbolo, che brilla solo fra i capelli dei re e dei loro figli?»

      «Sulla riva del Nilo,» rispose Mirinri, dopo una breve esitazione.

      Ounis si era alzato in preda ad una vivissima angoscia. I suoi occhi si erano dilatati e dimostravano un terrore profondo.

      «Che abbiano scoperto il nostro rifugio!» esclamò, facendo un gesto di collera. «Eppure io ho preso tutte le precauzioni perché nessuno sapesse il luogo ove io ti ho nascosto. Quell’ureo non può averlo smarrito che un Faraone.»

      «O una Faraona?» disse Mirinri, guardandolo fisso e sussultando.

      Ounis aveva fatto un soprassalto. S’accostò rapidamente al giovane, scuotendolo quasi brutalmente:

      «Una Faraona! Tu mi hai parlato poco fa d’una fanciulla divina… Dove l’hai veduta? Parla, Mirinri! Da ciò può dipendere il tuo destino e fors’anche la tua vita.»

      «L’ho veduta sulla riva del Nilo.»

      «Sola?»

      «No, perché poco dopo giunse una barca tutta scintillante d’oro, montata da una dozzina di negri superbamente vestiti e guidata da quattro guerrieri che reggevano delle aste d’oro con lunghe piume di struzzo disposte a ventaglio.»

      «Fra i capelli di quella fanciulla hai osservato questo gioiello?»

      «Sì, mi ricordo d’averglielo veduto brillare.»

      «Fu lei dunque a perderlo.»

      «Lo credo.»

      Ounis, che pareva ancora in preda ad una viva eccitazione, si era messo a camminare per la caverna colla fronte aggrottata ed i lineamenti ancora alterati.

      Ad un tratto si fermò dinanzi al giovane che lo guardava con crescente stupore, non sapendo spiegarsi l’agitazione che si era impossessata del vecchio sacerdote.

      «Quale impressione ti ha prodotto quella fanciulla?»

      «Non saprei spiegartela: so solo che da quel giorno la mia pace fu turbata.»

      «Me n’ero accorto,» disse il sacerdote, con voce sorda. «Tu da qualche tempo hai perduto la tua gaiezza, ed il tuo sonno non è più tranquillo. Ti ho sorpreso parecchie volte immerso in profondi pensieri, cogli occhi volti verso il settentrione, là dove Menfi irradia la sua potenza e la sua luce.»

      «È vero,» rispose Mirinri con un sospiro. «Si direbbe che quella fanciulla abbia portato con sé gran parte del mio cuore. Se chiudo gli occhi non vedo che lei: se dormo sogno lei; quando il vento sussurra fra le palme che costeggiano il Nilo, mi pare di udire la sua voce armoniosa. Vederla, vederla, sia pure una volta sola, dovesse costarmi la vita: ecco il mio solo, il mio unico desiderio, Ounis. Guarda: io mi copro gli occhi colle mani e me la vedo subito apparire dinanzi, e sento il sangue scorrere più veemente nelle mie vene, e battermi il cuore così forte come se volesse balzarmi fuori dal petto. Dolce visione! Quanto sei bella!»

      Il sacerdote era rimasto muto dinanzi all’entusiasmo


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