Novelle e riviste drammatiche. Arrigo Boito
Читать онлайн книгу.tutto; era formidabile in ciò che circoscriveva l'inimico ad un ristrettissimo campo d'azione e, per così dire, lo soffocava. Immaginatevi una parete animata che s'avanzi e pensate che i neri erano schiacciati fra la sponda della scacchiera e questa parete, poderosa, incrollabile.
A volte pare che anche le cose inanimate prendano gli atteggiamenti dell'uomo, il più frivolo oggetto può diventare espressivo a seconda di ciò che lo attornia. Ecco perché i pezzi d'ebano de' quali componevasi l'armata dei neri, parevano, davanti allo spaventoso assalto dei bianchi, colti anch'essi da un tragico sgomento. I cavalli, come adombrati, voltavano la schiena all'attacco, le pedine sgominate avevano perduto l'allineamento, il re che s'era affrettato a roccarsi, pareva piangere nel suo cantuccio il disonore della sua fuga. La mano di Tom, fosca come la notte, errava tremando sulla scacchiera.
Questo era l'aspetto della partita veduta dal lato dell'Americano. Mutiamo campo. Veduto dal lato del negro l'aspetto della partita si rovesciava. Al sistema dell'ordine sviluppato dall'apertura dei bianchi, il negro contrapponeva il sistema del più completo disordine; mentre quegli si schierava simmetrico, questi si agglomerava confuso, quegli poneva ogni sua forza nell'equilibrio dell'offesa e della difesa, questi aumentava ad ogni passo il proprio squilibrio, il quale, pel crescente ingrossar della sua massa, diventava esso pure, in faccia allo schieramento dei bianchi, una vera forza, una vera minaccia. Era la minaccia della catapulta contro il muro del forte, della carica contro il carré: mano mano che la parete mobile del bianco s'avanzava, il proiettile del negro si faceva più possente. I due eserciti erano completi uno a fronte dell'altro; non mancava né un solo pezzo né una sola pedina, e codesta riserva d'ambe le parti era feroce. L'Americano non iscorgeva in sul principio nella posizione del negro che una inetta confusione prodotta dal timor panico del povero Tom; ma appunto per la sua inettitudine gli pareva che quella posizione impedisse un regolare e decisivo assalto. Ma il negro vedeva in quella confusione qualcosa di più: tutta la sua natural tattica di schiavo, tutta l'astuzia dell'etiopico era condensata in quelle mosse. Quel disordine era fatto ad arte per nascondere l'agguato, le pedine fingevano la rotta per ingannare il nemico, i cavalli fingevano lo sgomento, il re fingeva la fuga. Quello squilibrio aveva un perno, quella ribellione aveva un capo, quel vaneggiamento un concetto. L'alfiere che Tom aveva collocato fin dal principio alla terza casa della regina, era quel perno, quel capo, quel concetto. Le torri, le pedine, i cavalli, la regina stessa attorniavano, obbedivano, difendevano quell'alfiere. Era appunto l'alfiere ch'era stato rotto ed aggiustato dall'Americano; un filo sanguigno di ceralacca gli rigava la fronte e calando giù per la guancia, gli circondava il collo. Quel pezzo di legno nero era eroico a vedersi; pareva un guerriero ferito che s'ostinasse a combattere fino alla morte; la testa insanguinata gli crollava un po' verso il petto con tragico abbattimento; pareva che guardasse anche lui, come il negro che lo giuocava, la fatale scacchiera; pareva che guatasse di sott'occhi l'avversario e aspettasse stoicamente l'offesa o la meditasse misteriosamente. Nel cervello di Tom quello era il pezzo segnato della partita; egli vedeva colla sua immaginosa ed acuta fantasia diramarsi sotto i piedi dell'alfier nero due fili, i quali, sprofondandosi nel legno del diagramma e passando sotto a tutti gli ostacoli nemici, andavano a finire come due raggi di mina ai due angoli opposti del campo bianco. Egli attendeva con trepidazione una mossa sola, l'arroccamento del re avversario, per dare sviluppo al suo recondito pensiero. Senza quella mossa tutto il suo piano andava fallito; ma era quasi impossibile che Anderssen ommettesse quella mossa. Tom solo vedeva e sapeva la sua occulta cospirazione e nessun giuocatore al mondo avrebbe potuto indovinarla. Al vasto ed armonico concepimento del bianco, il negro opponeva questa idea fissa: l'alfiere segnato; alla ubiquità ordinata delle forze dei bianchi i neri opponevano la loro farraginosa unità, al giuoco aperto e sano il giuoco nascosto e maniaco. Anderssen combatteva colla scienza e col calcolo, Tom colla ispirazione e col caso; uno faceva la battaglia di Waterloo, l'altro la rivoluzione di San Domingo. L'alfier nero era l'Ogè di quella rivoluzione.
La partita durava già da un paio d'ore; erano circa le nove della sera; alcune signore si allontanarono dalla scacchiera, stanche d'osservare, per darsi quale ad un lavoro, quale ad un ricamo, e quale, caricando e ricaricando la pistoletta da sala, si dilettava al piccolo bersaglio.
I due antagonisti erano sempre fissi al loro posto. L'Americano, che non vedeva ancora lo scaccomatto e che non capiva la selvaggia tattica del negro, cominciava ad annoiarsi ed a pentirsi dell'eccessiva cortesia che l'aveva spinto a quella partita. Avrebbe voluto finirla presto ad ogni costo, anche a costo di perdere; ma dall'altra parte il suo orgoglio di razza glielo impediva; un bianco ed un gentiluomo non poteva esser vinto da uno schiavo; inoltre la sua coscienza di gran giuocatore e il lungo studio de' scacchi non gli permetteva di fare un passo che non fosse pensato. Giunto alla quindicesima mossa, s'accorse che il suo re non s'era ancora arroccato, alzò le mani, colla sinistra sollevò il re, con la destra la torre, e stava già per compiere il movimento, quando scorse nell'occhio del negro un ilare lampo di speranza; non indovinò la ragione; stette ancora coi due scacchi per aria studiando la partita, titubò; l'occhio di Tom seguiva affannosamente, fra la gioia e il timore, i più piccoli segni delle due mani, bianche come l'avorio che serravano. Anderssen, turbato, stava per rimettere al loro posto prima i due pezzi, quando il negro esclamò vivamente:
– Pezzo toccato, pezzo giuocato.
– Lo sapevo, – rispose in modo urbano ma secco, mentre cercava ancora un sotterfugio per evitare la mossa, senza darsene precisamente ragione; ma i pezzi toccati erano due, bisognava giuocarli tutti e due: il codice del giuoco parlava chiaro; non era possibile altro passo che l'arroccamento. Anderssen si arroccò alla calabrista, come dice il gergo della scienza, cioè pose il re nella casa del cavallo e la torre nella casa dell'alfiere. Poi piantò gli occhi nel volto del nemico. Il negro, fatta che vide la mossa tanto sperata e tanto attesa, tornò a fissare più intensamente che mai l'alfiere segnato, ed acceso dalla emozione e dalla sua natura tropicale, non si curava né anche di temperare gli slanci della sua fisionomia. Correva su e giù coll'occhio dall'alfier nero al re bianco, facendo e rifacendo venti volte la stessa via quasi volesse tirare un solco sulla scacchiera. Anderssen vide quelle occhiate, le seguì, notò l'alfiere, indovinò tutto; ma sulla sua faccia non apparve un indizio solo di quella scoperta. Del resto Tom non guardava mai l'Americano; era sempre più invaso dall'idea fissa che lo dominava, Tom in quella stanza non vedeva che una scacchiera, in quella scacchiera non vedeva che uno scacco: fuor di quel piccolo quadrato nero e di quella figura d'ebano, nessuno e nulla esisteva per esso. Coi pugni serrati s'aggrappava agli ispidi capelli, sostenendosi così la testa, appoggiato coi gomiti alla sponda del tavolo; la pelle delle sue tempia, stiracchiata dalla pressione che facevangli i polsi delle due braccia, gli rialzava l'epiderme della fronte; le palpebre, in quel modo stranamente allungate all'insù, mostravano scoperto in gran parte il globo opaco e bianchissimo de' suoi occhi. In questo atteggiamento stette maturando il suo colpo per ben quaranta minuti, immoto, avido, trionfante; poscia attaccò; prese una pedina all'avversario e gli offese un cavallo. L'Americano aveva previsto il colpo. Il fuoco era incominciato. A quella prima scarica rispose un'altra dell'Americano, il quale prese la pedina nera ed offese la torre; cinque, sei mosse si seguirono rapidissime, accanite. La vera lotta principiava allora. A destra, a sinistra della scacchiera vedevansi già alcuni pezzi ed alcune pedine messe fuori di combattimento, primi trofei dei combattenti; l'assalto lungamente minacciato irruppe in tutta la sua violenza; da una parte e dall'altra si diradavano i ranghi, un pezzo caduto ne trascinava un altro, i bianchi facevano la vendetta dei bianchi, i neri facevano la vendetta de' neri, un bianco prendeva ed era preso da un nero, un nero offendeva ed era offeso da un bianco; mai la legge del taglione non fu meglio glorificata. Anderssen cominciava anch'esso ad eccitarsi. Egli aveva tutto preveduto, tutto combinato prima; appena scoperta la trama di Tom, durante quei quaranta minuti nei quali Tom immaginava il suo colpo fatale, Anderssen aveva letto nelle sue intenzioni ed aveva risposto al primo urto in modo da condurre il negro di pezzo in pezzo ad una posizione senza dubbio attraentissima e favorevolissima pel negro stesso; ma voleva trarlo a quella posizione a patto di sacrificargli l'alfiere. Anderssen sapeva già che, tolto l'alfiere, Tom non avrebbe più saputo continuare.
V'hanno degli entomati che non sanno due volte tessersi la larva, dei pensatori che non sanno rifar da capo un concetto, dei guerrieri che non sanno ricominciar la pugna: Anderssen pensava ciò intorno al suo antagonista.
Giunto