Il piccolo santo: Dramma in cinque atti. Bracco Roberto
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NOTA
Con questo dramma, io tento – ancora – un'arte che sembra troppo vaga a chi non ha voglia di concedermi una percezione acutamente alacre e a chi, pur essendo disposto a concedermela, non ha la facoltà di acuire il suo pensiero nell'esercizio della trasmigrazione verso il pensiero altrui. Gli elementi essenziali, che compongono, in quadri brevi, la mia nuova opera scenica, non hanno quasi mai una diretta e consona espressione, perchè risiedono nel fondo della esistenza di creature le cui parole e i cui atti non corrispondono alla loro psiche se non molto oscuramente e ambiguamente o addirittura ne divergono come i rami dal fusto. Il dissidio continuo, che si determina, or più or meno profondo, or più or meno inconsciamente, fra la psiche delle creature da me immaginate e le loro manifestazioni, costituisce l'invisibile filo conduttore dello sviluppo drammatico ed implica l'impossibilità assoluta di esporre il doloroso contenuto del dramma nella esteriorità dell'azione. E appunto questa impossibilità, che sùbito mi si parò innanzi quando la novella visione cominciava a sorgere, mi ha attratto cimentandomi e mi ha indotto a non destinare l'abbozzo della mia fantasia al limbo delle opere che pensai e cautamente non scrissi. Ahimè!.. Il mio povero Piccolo Santo non poteva aspirare a un simile destino…
Però che gente di molto valore
Conobbi che in quel Limbo eran sospesi.
Io ho, dunque, celato in parte l'anima di alcuni personaggi ed ho quasi tutta celata quella del protagonista (ugualmente si celerebbero esse nella vita reale) sperando di lasciarle indovinare a traverso parole e atti che ne tramutano le essenze psicologiche come la luce tramuta certe combinazioni chimiche preparatesi nel buio.
Mi è stato detto e ridetto che il teatro non consente il proposito di far comprendere ciò che non sia espresso dalle parole e dagli atti dei personaggi. Questo proposito – mi hanno ripetuto con assiduità parecchi dei miei autorevoli giudici, che hanno voluto avere la cortesia di essere anche i miei… insegnanti – non è presumibile che nel novellatore e nel romanziere. Costoro, difatti, con opportuna sagacia, intervengono fra personaggi e lettori spiegando e commentando, ovvero coloriscono, ricalcano, analizzano. Il commediografo, invece, dispone di mezzi molto limitati. Se i suoi personaggi non spiegano essi medesimi ciò che pensano, ciò che sentono, ciò che vogliono, ciò che li agita, non c'è modo di conoscerli, nè d'intendere che cosa fanno. Questo è, in sostanza, il monito dei miei cortesi insegnanti e io non saprei negarne la prudente saggezza. Tuttavia, mi ostino a credere – imprudentemente – che un complesso sintetico di segni significativi possa bene conferire alla scena la trasparenza necessaria a rendere comprensibile anche quello che non è veramente espresso.
Non di rado sento definire artificio la raffigurazione artistica che io chiamo complesso sintetico di segni significativi. Nulla è più comodo di questa spiccia definizione che dispensa da troppo sottili discernimenti i cervelli un po' pigri o un po' frettolosi. Ma, intanto, un tale «artificio» è il riscontro, perfettamente analogico, della sintesi d'impressioni che s'incide nell'intelletto di un ipersensibile osservatore di fatti umani. Come i raggi solari si riflettono e si riuniscono nel fuoco di uno specchio concavo, le linee apparenti del vero si riassumono nel centro cerebrale di questo osservatore commosso con quel tanto di più che la sua intensa sensibilità scorge oltre la parvenza delle cose, delle persone, degli ambienti. E tutto quanto la sua sensibilità produce, riproducendo, per così dire, sè stessa, è precisamente… un complesso sintetico di segni significativi che racchiude la realtà sostanziale nascosta dietro la realtà della superficie.
Ecco quel che vorrebb'essere l'arte che – talvolta – io tento.
ATTO PRIMO
Una stanzetta tutta bianca. Nessuna tappezzeria. La mobilia è semplice, quasi rozza, ma pulita. Un tavolino e una poltrona verso il lato destro. Qua e là, delle sedie impagliate. Uno stipetto basso su cui sono piccoli oggetti d'uso. Nella parete destra, è il vano d'un balcone, dal quale, a traverso le invetriate, sorridono, vivacemente, alcune piante di garofani rossi. Alla parete opposta, una porta. Nel centro della parete in fondo, la porta comune: più ampia, a doppio battente. Il pianerottolo, da cui si accede, ha a sinistra l'uscio di un'altra casa, di fronte una scalinata ascendente, a destra una scalinata discendente. Poco distante dalla porta comune, a sinistra sopra una mensola, che è come un alto sgabellone coperto fino al suolo da una stoffa fiorata, si erge, addossato alla parete, un grosso scarabattolo, nel quale è un grande Crocifisso di legno scolpito con l'Addolorata ginocchioni e piangente. Innanzi allo scarabattolo, una lampada di metallo bianco, accesa. Dall'altro lato della porta comune, un attaccapanni, da cui pende un mantello da prete che s'allunga e spicca sul bianco del muro.
SCENA I
(Nella stanzetta silenziosa, non c'è che Barbarello, il quale, disteso a terra proprio davanti alla porta comune – che è chiusa – , puntellandosi il cranio con un braccio, dormicchia. – Qualche rumore lo scuote. Egli si leva. Mette l'orecchio all'uscio, e, alzando le spalle, se ne allontana. – Giunge fino al tavolino, le mani allacciate a tergo e la testa bassa stupidamente dondolantesi sul collo un po' torto. – Poi, si aggira per la stanza sempre con le mani unite a tergo e con lo stesso dondolìo del capo.)
(In quell'atteggiamento appaiono, visibilissimi, i caratteri della deficienza cerebrale, che sono in compassionevole dissonanza coi suoi precipui connotati fisici. Il suo sembiante di adolescente, benchè sparuto cachettico e pronto alla deformazione della smorfia, serba, tuttora, i segni di una originaria schietta bellezza maschile. Egli ha le labbra fortemente accentuate, i denti massicci e bianchi, gli occhi grandi a mandorla, il naso aquilino, i capelli bruni folti e crespi formanti come un breve berretto sul capo di regolari proporzioni. Anche il suo corpo, se l'andatura incerta e melensa e le frequenti contorsioni nervose non lo deturpassero, parrebbe di un giovinetto normale, abbastanza agile e robusto, in quei panni che appunto ricordano un poco la robustezza e l'agilità del montanaro. Egli porta i calzoni stretti intorno alle caviglie e ficcati nei gambali delle grosse scarpe unte di sego, una camicia che gli si apre alla gola fin quasi allo sterno e una giacchetta succinta che gli sfugge di su i lombi e lascia scoperta, sul ventre, la cintola di vecchio cuoio. – Il suo aspetto, in complesso, è un misto di malinconico, di grottesco e di vagamente pauroso.)
(finge di non udire.)
(Si picchia più forte.)
(Si sentono, quindi, di fuori, le voci del Dottor Finizio e di Sebastiano.)
Don Fiorenzo!.. Don Fiorenzo!..
(si ferma, ascolta, sorride mostrando di divertirsi, e non si muove.)
Don Fiorenzo!.. Vi prego!.. Sono io, il dottore!..
(sorride ancora.)
Signor Sebastiano!.. Don Fiorenzo non apre e non risponde!.. Che non sia in casa?..
Ci dev'essere, ci dev'essere. A quest'ora c'è sempre. E se per caso si fosse dovuto assentare, mi avrebbe avvertito. (Si ode la sua voce più presso.) Sbrìgati ad aprire, Fiorenzo! Che stai ponzando? Io e il dottor Finizio abbiamo bisogno di parlarti. E c'è molt'altra gente ad aspettare. Sbrìgati! (Pausa) Ma questo è strano, perdiancine!
Perchè strano? Sarà uscito senza avvertirvi.
(irritandosi) No, no e no! Questo non è mai accaduto! Ed è anche strano che non si veda nemmeno quel bestione di Barbarello.
(ascolta impassibile.)
(risoluto) Sapete che voglio fare, io? Io voglio forzare la porta. Qui la cosa non è liscia. Un martello! Un martello!
Ma no! Lasciate stare, Sebastiano!
Lascio stare un corno!
(diventando serio,