Mattinate napoletane. Di Giacomo Salvatore

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Mattinate napoletane - Di Giacomo Salvatore


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un tratto guardò in su al balconcello della sala di medicatura. Un inserviente preparava filacce, presso alla balaustra, parlando col cuoco, che disotto gesticolava e rideva.

      – Che lle starranno facenno?– mormorò il vecchietto.

      Due lagrime gli vennero giù lentamente per le gote. Il portinaio vuotò la pipetta nella mano e, dopo un silenzio, chiese:

      – Mbè?

      – Quanto durò quella vita? N'anno. Poi fu come una caduta. Come uno che cade da una terrazza all'ultimo piano e si trova a terra. Povera figlia! Stette malata due mesi e perdette tutto. Diventò un'altra. Cappello tolto, anella pegnorate, vesti vendute… Che mestiere, frate mio, che mestiere! Gesù!..

      Ora piangeva pianamente, con lo sguardo a terra, con le mani strette sul petto.

      – E all'ultimo è arrivata a Piazza Francese. E l'hanno fatto chesto!.. Me pare nu suonno!

      – Ma chi glie l'ha fatto?

      – Doie cumpagne, pe gelusia.

      Arrivò in quel momento una vettura; dentro vi si abbandonava un giovanotto, che aveva buttato un braccio al collo della guardia la quale lo sorreggeva, guardandolo. Un sottil filo di sangue gli scendeva sulla camicia bianca, dal collo.

      La vettura entrò nel cortile con dietro una folla di gente curiosa. Il vecchietto, anche lui si accostò, inorridendo.

      Il guardaporta afferrò la fune della campanella. Tre tocchi. La guardia di pubblica sicurezza gli avea fatto certo segno disperato…

      Poi la gente fu cacciata e il portone chiuso.

      – E chisto è n'ato– disse il guardaporta, tornando al vecchietto.

      Quello mormorò:

      – Puveriello!..

      Dopo un momento chiese:

      – Serafina resta qua?

      – Non si può. Dopo medicata andrà agl'Incurabili. Donne qui non se ne ammettono – rispose il cerbero, tornando feroce e voltando al vecchio le spalle.

* * *

      Serafina fu scesa a braccia e collocata in vettura con le guardie. Fu levato il soffietto e nessuno più vide niente. Ma ella aveva visto il vecchietto. Una mano venne fuori tra serpa e soffietto, e chiamò. Il vecchio accorreva. Dalla vettura uscì una voce femminile, commossa:

      – A Nnincurabile… Venite llà… Nun è niente… nun avite paura!..

      Il vecchietto si mise a galoppare dietro alla carrozzella con gli occhi pieni di lacrime, ansimando, chiamando:

      – Sarrafì!.. Sarrafì!.. Sarrafì!..

      L'ABBANDONATO

      – Che si dice? – chiese Gaetanella Rocco a Carmela la serva, la quale passava sul marciapiedi e parlava sola, come al solito.

      Carmela si volse e tornò indietro. Il vento le penetrava di sotto lo sciallo, di cui svolazzava un lembo; l'altro ella teneva fra mano, accostandolo di tanto in tanto alla faccia.

      – È morta or ora – gemette – Ah, Gesù! Io sono così fatta che ci penserò tutta la giornata. E voi, andate a vederla?

      Gaetanella, impassibile, guardava la serva, mettendo fuori il capo di su il paravento di legno tra la casa e la strada. Carmela, sul marciapiedi, rabbridiva pel vento secco che le veniva di faccia e le appiccicava le gonnelle alla carne.

      – Ci vado più tardi – disse Gaetanella – ancora ho la casa sossopra. Iersera è arrivato il fratello di mio marito, il caporale di cavalleria. Ha avuto il permesso sino a mezzanotte, e sono stati qui tutti, con gli amici, a cantare e a bere. Immaginate voi!

      – Lasciate fare, sono giovanotti. Che ne vediamo della vita? Si muore, così, da un momento all'altro!

      – Non c'è che dire – sospirò Gaetanella, buttando sul marciapiedi bucce di castagne e di mele dal canestro dei rifiuti.

      – Me ne vado – disse la serva – buongiorno.

      – Se ripassate e voi chiamatemi. Andremo a vedere insieme…

      Era morta donna Nena la romana, una vecchia che non faceva male a nessuno e che leggeva le lettere alle vicine della via, senza occhiali. Era venuta da Roma, al sessantacinque; la si poteva tenere per napolitana. Le vicine conoscevano un po' la sua storia, ma nessuna aveva potuto entrar troppo addentro in certi particolari che la vecchia sapeva a tempo scartare.

      Lassù, a S. Pasquale al Corso, donna Nena abitava da tre anni, nel cortile del monastero, in una stanzuccia rimpetto al pozzo. Pareva, in quella immensa quiete, una badessa sopravissuta alle sue monache, bandite per sempre, a far posto ai carabinieri in caserma.

      Il cortile, deserto, era triste. Sotto l'arcata, tutta bianca di calce, girava intorno il sedile di peperino, qua e là fiorente d'una selvaggia vegetazione, la quale pigliava radici tra le screpolature e le commessure della pietra. In maggio il sole che lo allagava tutto invogliava donna Nena a uscire dalla sua celletta. La piccola vecchia andava a sedere sotto le colonne, sulla pietra grigia del parapetto e poggiava i piedi sui piuoli d'una seggiola sconquassata, ch'era deposito di straccetti d'ogni colore. Agucchiava. I romori della via erano confusi e arrivavano, morendo, al cortile del chiostro silenzioso. A volte, d'un subito, risonava in fondo, su per la scala grande, il passo pesante del brigadiere e costui spuntava nel cortile, attraversandolo, con le mani nelle saccocce dei calzoni e la lunga pipa in bocca. Qualche passero ch'era venuto, saltellando sui ferri della balaustra, ad affacciarsi nel pozzo, scappava, spaventato, con un piccolo grido. Donna Nena levava il capo dai suoi ritagli, teneva dietro con gli occhi socchiusi al volo dell'uccellino, le mani abbandonate sulle ginocchia. Certamente pensava ad altro. Una tossicina stizzosa la coglieva di tanto in tanto, e i colpi della tosse tre, quattro volte rompevano senza eco il silenzio intorno.

      Spesso, di sopra, un carabiniere si metteva a cantare presso una finestra, dando la brunitura al fucile. Era una voce di tenorino, che vibrava limpidamente nell'aria:

      M'incatinasti, beddicchia, stu cori, ca l'apparienza…

      Donna Nena, laggiù nel cortile, infilava l'ago, sceglieva tra i ritagli, rimaneva un pezzetto con lo sguardo perduto nella fuga degli archi. Le labbra mormoravano, dal pugno chiuso le dita si spiegavano, una dopo l'altra. Cantava. A un tratto, di sopra, la nenia del siciliano interrompendosi faceva tornare la vecchia, distratta, al suo lavoro. Il cortile si rifaceva silenzioso.

      Al secondo anno da quando donna Nena era venuta a stare lassù, in una mattina di febbraio ella uscì – come disse a Gaetanella Rocco – per andare a pregare l'amministratore di quel locale perchè le facesse rimettere a un finestrino della celletta un vetro frantumato. Da un orto vicino i monelli glie lo avevano rotto: il vento le entrava in camera, proprio accapo al letto. Quando il vetro fu rimesso la vecchietta ebbe compagnia in casa. Ci venne un piccino malaticcio, debole, tutto pallido.

      Da quel tempo ella si fece vedere più di frequente; il piccino aveva bisogno del latte alla mattina, di pane fresco, di frutta mature. Tutto questo faceva andare e venire dal cortile alle botteghe della via la vecchietta frettolosa, che per mostrarsi così tenera del bimbo almeno gli doveva molto voler bene.

      Carmela la serva, pochi giorni dopo la comparsa del bambino, avendo appurato come e donde venisse, si contentò di perdere tempo e di far aspettare la padrona per andare a confidarsi con Fortunata la rivendugliola, vicina di Gaetanella. Tutte e tre sedettero attorno al braciere; Carmela a mezza seggiola, col paniere della spesa sulle ginocchia, per far presto.

      – Donna Nena questo me l'aveva già detto un anno fa, ha una figliuola, si chiama Clelia. Due figlie le son morte di mal sottile e quest'altra…

      S'interruppe, strinse le labbra, battè col palmo della mano sul manico del paniere, con un'aria desolata.

      – Capite?..

      – Eh! – sospirò la rivendugliola.

      – Che ha fatto? – chiese Gaetanella.

      – Come


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