L'ignoto: Novelle. Di Giacomo Salvatore

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L'ignoto: Novelle - Di Giacomo Salvatore


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poi lei sa tante cose ch’io non so. E poi è giovane, e ha da pensare a tante altre cose.

      – No, non è questo. Dica che ciascuno non comprende se non quel che ritrova in se stesso.

      – Sarà. Ma glie ne voglio dire una: stanotte, per esempio, sa lei che cosa ho sognato? Il nostro gatto rosso che scorrazzava nella sala degl’incunaboli.

      Sorrideva, candidamente. In quel punto mi sentii quasi intenerito da quella innocenza pacata e soddisfatta, illuminata, come da un dolce riverbero dell’anima, da due limpidi occhi azzurrini. No, non ponevo, è vero, quell’inconscia virtù in relazione con tante altre della vita, più stimabili, più alte, e non mi pareva di doverne cavare ammaestramento: quella era una forma nulla, una espressione quasi brutale di accontentamento, l’indizio ignaro e pietoso d’una natura inferiore, tranquillamente passiva. Tuttavia quella felicità fortificante, d’un tonico effetto morale, pareva che mi volesse ammonire sulle cose della vita.

      O non avevo davanti a me un essere ch’io forse giudicavo troppo frettolosamente? La mia fantasia, disposta ad architettare, ora mi offeriva un più sottile giudizio intorno ad esso: io gli supponevo, adesso, una rinunzia progressiva, una riduzione continuata delle sue pretensioni, delle sue speranze, della sua libertà, e tutto questo mi sembrava mascherato da quel faccione rosso e pletorico, traspirante una giovialità e una contentezza fanciullesche e rischiarato da un sorriso perenne.

      Così, talvolta, quando potevo coglierlo in qualche momento in cui mi si mettesse tutto quanto sott’occhi, io facevo scorrere sulla superficie di quest’uomo il mio sguardo investigatore, e tentavo di penetrarla. Sapevo ch’egli era solo, che in casa non aveva che una vecchia serva, che l’abito suo di trovarsi sempre pel primo in ufficio e d’uscirne sempre l’ultimo – urtante metodicità per gli apprezzamenti d’un malato di nervi com’io sono – non s’era mutato una sola volta da quando Stazza era entrato in biblioteca. Costui dunque non aveva avuto gioventù, passioni, disillusioni, scoraggiamenti? Che cosa era nel passato di questo gigante rubicondo che violentava e superava tutte le leggi impulsive alle quali tre quarti dell’umanità va soggetta?

      Finii per arrendermi a quella impenetrabilità pacifica e indifferente. Ma un senso di tedio e di stanchezza mi allontanò dal mio compagno. Lo incontravo, ci salutavamo freddamente, ed io gli sfuggivo, accrescendo così, senza forse desiderarlo, il numero delle persone la cui comunione mi diventava, là dentro, ogni giorno più insopportabile.

      III

      Entrai nella stanza del direttore.

      Stazza, impiedi davanti alla costui scrivania, si voltò. Mi venne incontro e mi tese le mani.

      – Mille scuse! Ma io non potevo andarmene senza averla salutato. Addio, caro signore… Io me ne vado.

      Interrogavo con gli occhi il direttore e gli altri miei compagni, che circondavano Stazza, silenziosi.

      – Un fatto deplorevole – disse il direttore, rompendo il silenzio – L’ottimo nostro Stazza è stato collocato a riposo. Ci lascia.

      – Come! – esclamai – Così! Di punto in bianco?

      Stazza chinò la testa.

      Il direttore con la punta del tagliacarte additò un foglio sulla sua tavola.

      – M’arriva ora la comunicazione ministeriale. Le solite sorprese. Ma, Dio mio, non avrei mai immaginato!..

      Le mani di Stazza mi si protendevano, tremanti. Lasciai cadere in quelle le mie, e le strinsi, due, tre volte. Guardai in faccia il colosso: era turbato, ma si sforzava di parer tranquillo. Soltanto s’era arrossato un poco più agli zigomi. Si passò una mano sulla fronte, si guardò intorno, tornò a voltarsi verso la tavola del direttore, smarritamente.

      – Dunque… – gli balbettò – Se lei mi permette… Vado. Spero bene di rivederla, qualche volta…

      – Macché! Ma vuole andarsene proprio adesso? Ma v’è tempo. Guardi, faccia come se il decreto non glie l’avessi comunicato ancora…

      – No, no! – disse lui – Mi permetta, mi scusi. Voglio essere ossequente…

      – Peccato! – esclamò il direttore, come lo vide uscire e scomparire dietro l’uscio – Dopo trent’anni!

      Si levò, s’incamminò fino alla porta, si arrestò sulla soglia. Di fuori s’udivano le voci degl’impiegati, la voce di Stazza che si licenziava, confuse.

      Il direttore rientrò. Andò al balcone, guardò nella via, senza badarvi.

      Eravamo rimasti soli. Egli tornò addietro, s’appressò alla scrivania, vi cercò qualche carta, la lesse e la buttò lì, sulla tavola, con un moto sdegnoso.

      – Mi permette? – chiedevo.

      – Guardi, guardi! – esclamò – Guardi un po’ con chi mi sostituiscono quel disgraziato. Aspetti un momento… Legga pure.

      Mi pose quella carta sotto gli occhi.

      – Come! De Laurenzi!

      – Già, s’intende. Ha brigato e v’è riescito. Entra in organico e prende il posto di Stazza.

      Soggiunse, dopo un momento, rimettendosi a sedere alla sua scrivania:

      – S’accomodi pure.

      IV

      Passò un mese. In questo tempo gli studenti fecero chiasso, al solito, e ruppero vetri e banchi: l’Università fu chiusa e il numero de’ lettori, nella nostra biblioteca, s’accrebbe del doppio. Vi fu un gran da fare e Stazza fu dimenticato. Soltanto qualche volta, in un momento di tregua, il suo nome ricorreva nel vaniloquio degl’impiegati raccolti nella sala della distribuzione intorno all’ultimo bollettino del ministero, ove apparivano – già indicati, con una crocetta, da qualche necrologo de’ nostri compagni – i nomi di coloro che o eran morti o erano stati collocati a riposo. La constatazione de’ decessi e de’ ritiri– un refrigerio per i superstiti – occupava quelle constatazioni e quelle conversazioni fredde e indifferenti; per lo più si discuteva sugli anni di servizio del croce segnato o sulla somma della sua pensione. Ma la psicologia di queste sparizioni – un legame di troppo sottili e pietose induzioni che in altri spiriti potevano forse rampollare dall’esame di casi somiglianti – non veniva certo a turbare l’animo de’ miei compagni. Stazza, dopo tutto, sottobibliotecario a tremila, liquidava, come si dice, quasi dugento lire al mese. Una fortuna per un illetterato, una tabula rasa come lui, che la doveva a quei benedetti tempi borbonici ne’ quali era così facile di entrare, senza le qualità di cultura che vi occorrono, in un instituto scientifico come di mettersi a tavola in una pubblica taverna.

      – Vuol vedere Stazza? – mi fece un di que’ giorni l’usciere addetto alla spolveratura della mia camera.

      Con uno strofinaccio tra le mani s’era avvicinato al balcone chiuso e guardava nella via, attraverso a’ vetri.

      – Venga, venga! Eccolo lì…

      Mi levai e corsi al balcone.

      – Lo vede?

      – Dov’è?

      – Non lo vede? Lì, seduto fuori al caffè di rimpetto. Lo vede? A quel tavolo a sinistra della porta. Eccolo che leva gli occhi. Guarda quassù, guarda i nostri balconi.

      – Difatti.

      Il colosso era lì, seduto a un tavolinetto tondo sul quale stavano il vassoio e la chicchera del caffè. Posava le mani sulle ginocchia e di volta in volta alzava gli occhi e li faceva trascorrere sulla facciata della biblioteca, lentamente.

      – Così fa ogni giorno, da un mese – disse l’usciere.

      E ripassò il panno sui vetri perchè vedessi meglio.

      – Arriva al caffè sulle nove ore, si mette a sedere lì fuori, e vi resta fino a mezzodì. Poi torna dopo pranzo e si rimette allo stesso tavolino e non se ne leva che alle quindici.

      – E tu come fai a saper tutto questo?

      – Me


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