Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3. Giovanni Boccaccio

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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - Giovanni Boccaccio


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Chiamasi «arca», percioché assai, essendo di pietra e di marmo, hanno quella forma che hanno l’arche del legno, nelle quali molti conservano il grano e le cose loro; ed è detta questa «arca», percioché ella ha a rimuovere il vedere delle cose che dentro vi sono, o il ladro da poterle tôrre, e di quinci viene «arcano», la cosa segreta. Chiamansi «tombe», percioché, essendo sotterra luoghi concavi, par che risuonino o rimbombino; e perciò si dice «tumba», quasi «tumulus bombans», cioè cosa rilevata che rimbombi. Chiamasi «monimento», percioché «ammoniscono» la mente de’ riguardanti, recando loro a memoria la morte o il nome di colui che in esso è seppellito. Chiamasi ancora «locello», quasi «piccol luogo», per rispetto del grande, il quale vivi vogliamo occupare e occupiamo, e poi, morti, in picciolissimo luogo capiamo. Chiamasi «tumulo», quasi «terra gonfiata e rilevata», sí come talvolta veggiamo sopra i corpi che nuovamente sono seppelliti in terra; e, oltre a ciò, solevano gli antichi fare sopra i corpi de’ nobili uomini alcuno edificio alquanto rilevato, il quale avesse a dimostrare il luogo dove quel cotale fosse stato seppellito; de’ quali noi veggiamo ancora oggi per lo mondo assai. Chiamasi «sarcofago», percioché in esso si consuma la carne di chi v’è dentro seppellito, e dicesi da «sarca», graece, che tanto vuol dire quanto «carne», e «paghos», che tanto vuol dire quanto «mangiare»; e in essi i vermini mangiano la carne del seppellito. Chiamansi ancora «mausolei», e questa è nobile spezie di sepolcri, si come son quegli de’ re e de’ gran principi; e chiamansi cosí da Mausolo, re di Caria, al quale, morto, Artemisia reina, sua moglie, fece una mirabile sepoltura. La quale, secondo che l’antiche storie testimoniano, fu di spesa e di grandezza e d’artificio maravigliosa; percioché Artemisia, ogni femminile avarizia posta giú, fece chiamare a sé i quattro maggiori maestri d’intaglio e di edificare che al mondo avesse a’ suoi tempi, i nomi de’ quali furono Scopas, Bryaxes, Timoteo e Leochares; e fuori d’Alicarnasso, sua real cittá, comandò loro che ordinassero, senza avere riguardo ad alcuna spesa, il piú nobile e il piú magnifico sepolcro che far si potesse. Li quali, preso uno spazio quadro, la cui lunghezza fu sessantatré piedi, la larghezza non fu tanta, l’altezza fu centoquaranta, il circúito del quale cinsero di trentasei maravigliose colonne; e quella parte, la quale era vòlta a levante, dicono che intagliò Scopas, e quella che era a tramontana Bryaxes, e quella che vòlta era in ponente lavorò Leochares, e la quarta Timoteo; li quali in intagliare istorie e immagini, ovvero statue, posero tanto studio e tanta arte, per dover ciascuno apparere il migliore, che, molti secoli poi, assai agevolmente apparve agl’intendenti questi maestri avere lavorato per disiderio di gloria, e non per guadagno; e cosí infino al disiderato fine il produssero. Appresso a’ quali vi venne un quinto artefice, di non minore ingegno che i quattro primi, chiamato Yteron, il quale per ventiquattro gradi ragguagliò la piramide, cioè la punta quadra superiore; e poi vi s’aggiunse il sesto, chiamato Pythis, il quale nella sommitá di tutto il dificio fece una quadriga, cioè un carro con quattro ruote, tirato da quattro cavalli, con maraviglioso artificio composta. E in questo finí il lavorio di tanta bellezza e sí magnifico, che lungo tempo fu annoverato l’uno de’ sette miracolosi lavorii, li quali in tutto il mondo essere allora si ragionavano. E da Mausolo fu «mausoleo» nominato; e cosí, come detto è, ancora si nominano le maravigliose sepolture de’ re. Chiamansi ancora i sepolcri, «busti», e questi son detti da’ corpi «combusti», cioè arsi, sí come anticamente far si soleano. E chiamansi «urne», le quali erano certi vasi di terra e d’ariento e d’oro, secondo che color potevano che ciò facevano, nelle quali, con diligenzia ricolta, la cenere d’alcun corpo arso dentro vi mettevano. E questo basti aver de’ sepolcri detto. Séguita: «son piú e men caldi», secondo la gravezza maggiore e minore del peccato della eresia di quegli eretici che dentro vi son tormentati.

      E detto questo degli eretici, mostra come avanti procedessero, pur tra le sepolture, dicendo: «E poi ch’alla man destra si fu vòlto», Virgilio, «Passammo tra i martiri», cioè tra quelle sepolture, «e gli alti spaldi». «Spaldo» in Romagna è chiamato uno spazzo d’alcun pavimento espedito; e perciò dice che tra’ martiri passò, e tra’ luoghi che quivi espediti erano.

       II

      Senso allegorico

      «Quel color, che viltá di fuor mi pinse», ecc. Avendo l’autore ne’ precedenti canti, secondo, la dimostrazion fattagli dalla ragione, dimostrato che peccati sien quegli a’ quali noi naturalmente tirati siamo, e ne’ quali noi per incontinenzia vegnamo, e ancora quali supplici ad essi dalla divina giustizia sieno imposti; e restandogli a discriver quegli li quali per bestialitá e per malizia si commettono, accioché, cognosciutigli, meglio da essi guardar ci sappiamo, e ancora, se in essi caduti fossimo, ce ne dogliamo, e per penitenzia perdono meritiamo; e parendogli opportuno, a dover questo fare, di dimostrare superficialmente dove questi peccati si piangono, e, in parte, la cagione dalla quale par che provengano: primieramente scrive come alla cittá di Dite pervenisse, e come in quella gli fosse negata l’entrata; e appresso come da tre furie infernali fosse provocato il Gorgone per doverlo far rimanere, e quinci perché quello per opera della ragione non aveva potuto avere effetto, come e per cui fosse la porta della cittá aperta, e come dentro seguendo la ragione v’entrasse, disegna; e quale spezie di peccatori, entratovi, primieramente in doloroso tormento trovasse. E percioché a lui medesimo par sotto molto artificioso velame aver queste cose nascose (come nel testo appare), rende solleciti coloro li quali hanno sani gl’intelletti, a dovere agutamente riguardare ciò che esso ha riposto sotto i versi suoi.

      È adunque primieramente da vedere quello che esso abbia voluto che s’intenda per la cittá di Dite. Il che se perspicacemente riguarderemo, assai ben potremo comprendere lui voler sentire questa cittá niuna altra cosa significare, che il luogo dello ’nferno nel quale si puniscono gli ostinati. E ciò dimostra in due cose, delle quali discrive questo luogo essere circundato, cioè dalla padule di Stige, della quale dice i fossi di questa cittá esser pieni, e impedire ogni entrata, fuori che quella alla quale Flegiás dimonio con la sua nave perducesse altrui; e, appresso, essa cittá aver le mura di ferro, le quali non si posson leggiermente rompere o spezzare. Per le quali due cose sono da intendere due singulari proprietá degli spiriti maladetti che in esso luogo tormentati sono, o vogliam dire dell’anime ostinate, le quali in quello luogo in diversi supplici punite sono: ed è la prima «tristizia», significata per Stige, percioché la tristizia si può dire essere la prima radice della ostinazione, si come appresso apparirá; la seconda è la «inflessibile fermezza» del malvagio proponimento, nel quale senza mutarsi consiste l’ostinato, e questa è significata per le mura del ferro, la cui durezza è tanta e tale, che per forza di fuoco, non che d’altra cosa, non si può liquefare, come tutti gli altri metalli fanno: e perciò per esso ferro assai ben si dimostra la seconda qualitá degli animi degli ostinati, li quali né caldo alcuno di caritá, né dimostrazione o ragione alcuna puote ammollire, né riducere in alcuna laudevole forma.

      E chiama l’autore questo luogo Dite, cioè «ricco» e «abbondante»; ed esso medesimo mostra di che ricco e abbondante sia, cioè di «gravi cittadini», e di «grande stuolo», cioè moltitudine: percioché, per lo trasandare nelle colpe, li piú de’ peccatori da’ peccati naturali trasvanno ne’ bestiali o ne’ fraudolenti; e cosí questa ultima e piú profonda parte dello ’nferno è molto piú piena che la superiore. E pare che questa pestilenza entri negli animi, come detto è, per lo trasandar nelle colpe o per bestialitá o per malizia, delle quali l’una non lascia cognoscer la misericordia di Dio, e l’altra non la vuoi cognoscere; e però, trascorsi con abbandonate redine ne’ vizi e in quegli per lungo trasandare abituati, gli s’hanno ridutti in costume; e quando il vizio è convertito in costume, niuna speranza di poterlo rimuovere si puote avere; e cosí indurati e sassei divenuti, caggiono in questo miserabile luogo. Nel quale per ciò è vietata l’entrata alla ragione e all’autore: alla ragione, percioché il costume degli ostinati è non volere, come detto è, alcuna ragione udire incontro alla loro sassea e dannosa opinione; all’autore fu vietata, percioché nel vizio della ostinazione non era venuto. E cosí, parendo a’ ministri del doloroso luogo lui non dover venire per rimanere, come gli altri facevano che v’entravano, non fu voluto ricevere, ma essere alla ragione e a lui stata serrata la porta non di Dite, ma de lo ’ntelletto, da’ loro avversari, li quali con ogni lor forza e con tutto il loro ingegno adoperano che alcuno conoscer non possa quello, che, conosciuto, gli sia


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