Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 8. Edward Gibbon

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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 8 - Edward Gibbon


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avrebbero dovuto rattemperare l'ardore di Totila. Ma consapevole egli era, che il Clero ed il Popolo d'Italia agognavano ad una rivoluzione: egli si avvide od insospettì dei rapidi progressi che facea il tradimento, e stabilì di commettere il regno dei Goti alle venture di una giornata campale, in cui i prodi fossero animati dall'imminente pericolo, ed i mal affetti fossero rattenuti dalla reciproca loro ignoranza. Da Ravenna il Generale romano continuò la sua marcia, punì la guernigione di Rimini, traversò in linea retta i Colli di Urbino e riprese la via Flaminia, nove miglia di là dalla Rocca Forata, ostacolo dell'arte e della natura che poteva fermare o ritardare i suoi passi134. Adunati erano i Goti nelle vicinanze di Roma; senza frapporre dimora essi avanzarono all'incontro di un superiore nemico, e i due eserciti si accostarono fra loro alla distanza di cento stadi, fra Tagina135 ed i sepolcri dei Galli136. Il superbo messaggio di Narsete portò l'offerta non di pace ma di perdono. La risposta del Re Goto certificò il suo proponimento di morire o di vincere. «Qual giorno» disse il messaggero «stabilisci tu per la pugna»? «L'ottavo giorno, replicò Totila»: ma tosto, nel mattino seguente, egli tentò di sorprendere un nemico che sospettava della frode, ed era preparato per la battaglia. Diecimila Eruli e Lombardi di provato valore e di dubbia fedeltà, furono collocati nel centro. Ciascuna delle ale era composta di ottomila Romani; la cavalleria degli Unni guardava la destra, e la sinistra veniva coperta da mille cinquecento Cavalieri scelti, i quali, a norma del bisogno, dovevano sostenere la ritirata dei loro amici, o circondare il fianco dell'inimico. Dal posto ch'erasi eletto alla testa dell'ala diritta, l'Eunuco cavalcò lungo la linea, esprimendo colla voce e cogli atti la sicurezza in cui era della vittoria, spronando i soldati dell'Imperatore a punire i delitti e la temerità di una masnada di ladroni, ed esponendo ai loro sguardi le catene d'oro, le collane, e le armille che dovevano essere il guiderdone della militare virtù. Dall'evento di una semplice zuffa, essi trassero un augurio di successo felice, e videro con piacere il coraggio di cinquanta arcieri che difesero una piccola altura contro tre successivi attacchi della cavalleria de' Goti. Gli eserciti in distanza di non più di due tiri d'arco, consumarono la mattina nella terribile aspettativa della tenzone, ed i Romani presero qualche necessario cibo, senza trarsi la corazza dal busto, o torre la briglia ai cavalli. Narsete aspettava che fosse primo ad assalire il nemico; ma Totila differì l'attacco in sino ch'ebbe ricevuto l'ultimo rinforzo di duemila Goti. Il Re, intanto che traeva in lungo le ore mediante inutili pratiche di accordo, mostrò in un angusto spazio la forza e l'agilità di un guerriero; ricche d'oro erano le sue armi: la purpurea sua bandiera ondeggiava all'aure: egli vibrò in alto la lancia, l'afferrò colla destra, la trapassò alla sinistra; si rovesciò indietro, si ricompose sulle staffe, e maneggiò un ardente corsiero in tutti i passi ed in tutte le evoluzioni della scuola equestre. Come fu giunto il rinforzo, egli ritirossi nella sua tenda, prese il vestimento e le armi di un semplice soldato, e diede il segnale della battaglia. La prima linea di cavalli si trasse innanzi con più coraggio che prudenza, e lasciò dietro di sè la fanteria della seconda linea. Essi furono ben presto impegnati tra le corna di una mezza luna, in cui a poco a poco eransi piegate le ali del nimico, e furono assaliti per ogni banda dai tiri di quattromila arcieri. Il loro ardore ed anche lo estremo in cui erano, li trasse a sostenere un disuguale conflitto da presso, in cui non potevano valersi che della lancia contro un nemico che sapeva egualmente maneggiar bene tutte le armi. Una generosa emulazione infiammò i Romani, ed i loro barbarici ajuti; e Narsete, che tranquillamente osservava e regolava i loro sforzi, rimase incerto a chi dovesse aggiudicare la palma dell'intrepidezza maggiore. La cavalleria Gotica fu sconcertata e posta in disordine, incalzata da vicino e messa in rotta, e la linea dell'infanteria, in cambio di presentare le aste, o di aprire i suoi intervalli, venne calpestata sotto i piedi dei fuggenti cavalli. Seimila Goti caddero trucidati senza mercede, nel campo di Tagina. Il loro Principe con cinque seguaci fu sopraggiunto da Asbad della schiatta de' Gepidi: «risparmia il Re d'Italia,» sclamò una voce fedele, ed Asbad cacciò la sua lancia nel corpo di Totila. Vendicato immantinente dai fidi Goti fu il colpo; essi trasportarono il moribondo Monarca sette miglia lungi dalla scena della sua sventura, e gli ultimi suoi momenti non furono amareggiati dalla presenza di un inimico. La compassione gli somministrò il rifugio in un oscuro sepolcro; ma i Romani non si riputarono paghi della loro vittoria finchè non ebbero contemplato il cadavere del Re dei Goti. Il suo cappello, adorno di gemme, e l'insanguinato suo vestimento, furono presentati a Giustiniano dagli ambasciatori del trionfo137.

      Narsete, poi ch'ebbe sciolto il debito della pietà verso l'Autore della vittoria e verso la Beata Vergine sua particolare tutela,138 ringraziò, ricompensò e licenziò i Lombardi. I villaggi erano stati ridotti in cenere da questi imperterriti selvaggi: essi avevano stuprato le matrone e le vergini sopra gli altari. La ritirata loro fu diligentemente tenuta d'occhio da un forte distaccamento di forze regolari, inteso a prevenire la ripetizione di somiglianti disordini. Il vittorioso Eunuco condusse il suo esercito per la Toscana; accettò la sommissione de' Goti, udì le acclamazioni e spesso le querele degl'Italiani; e circondò le mura di Roma col resto delle sue formidabili forze. Narsete assegnò a se stesso ed a ciascuno de' suoi luogotenenti il posto di un reale o finto attacco intorno alla vasta circonferenza della città, nel tempo stesso che notava un sito mal guardato e di facile ingresso. Nè le fortificazioni del molo di Adriano, nè quelle del porto, poterono trattenere a lungo i progressi del conquistatore; e Giustiniano ricevè di bel nuovo le chiavi di Roma, la quale, durante il suo regno, era stata cinque volte presa e ripresa139. Ma la liberazione di Roma fu l'ultima calamità del popolo romano. I Barbari, alleati di Narsete, troppo spesso confondevano i privilegi della pace e della guerra: la disperazione de' fuggiti Goti trovò qualche conforto in una sanguinosa vendetta; e trecento giovani delle famiglie più nobili, che erano stati spediti come ostaggi di là del Po, vennero dispietatamente trucidati dal successore di Totila. Il destino del Senato porge un terribile esempio delle vicissitudini delle cose umane. Fra i Senatori che Totila aveva bandito dalla patria loro, alcuni furono riscattati da un ufficiale di Belisario, e trasportati dalla Campania nella Sicilia; nel mentre che altri erano troppo colpevoli per fidare nella clemenza di Giustiniano o troppo poveri per procacciarsi cavalli, e giugnere al lido del mare. I loro confratelli languirono per cinque anni in uno stato di miseria e di esiglio. La vittoria di Narsete ravvivò le loro speranze; ma i furibondi Goti impedirono il prematuro loro ritorno alla Metropoli; e tutte le fortezze della Campania furono tinte di sangue patrizio140. Dopo un periodo di tredici secoli l'istituzione di Romolo fu estinta; e se i nobili di Roma continuarono a prendere il titolo di Senatore, poche tracce in seguito si possono scorgere di pubbliche adunanze o d'ordine costituzionale. Salite seicent'anni all'insù, e contemplate i Re della terra in atto di ricercare udienza, quali schiavi e liberti del Senato Romano141!

      La guerra Gotica era viva tutt'ora. I più valorosi della nazione si ritirarono oltre il Po, e Teja con unanime consenso fu eletto per succedere all'estinto Eroe e per vendicarlo. Il nuovo Re tostamente mandò un ambasciatore ad implorarono per meglio dire a comprare l'ajuto dei Franchi, e nobilmente profuse per la pubblica salvezza le ricchezze che erano state raccolte nel palazzo di Pavia. Il rimanente del tesoro reale era custodito dal suo fratello Aligerno dentro Cuma nella Campania; ma la rocca fortificata da Totila, era strettamente assediata dalle armi di Narsete. Il re Goto con rapide e segrete mosse si avanzò dalle Alpi al piè del Vesuvio, in soccorso dell'assediato fratello, ingannò la vigilanza dei Capi romani, e piantò il suo campo sulle rive del Sarno o Draco,142 che da Nocera discende nel golfo di Napoli. Il fiume separava i due eserciti; si consumarono sessanta giorni in combattimenti dati in distanza e senza alcun frutto, e Teja mantenne questo posto importante, finchè fu abbandonato dalla sua flotta e da ogni speranza di ricevere vettovaglie. Con ripugnanti passi egli salì sul monte Lattario, dove i medici di Roma, dal tempo di Galeno in poi, mandavano i loro malati per godere i benefizj dell'aria e del latte143. Ma i Goti bentosto si appresero ad un più generoso partito che fu di calar giù del colle, di licenziare i loro cavalli, e di morire colle armi in mano anzi che perdere la libertà. Il Re marciava alla lor testa, portando nella


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<p>134</p>

La via Flaminia, secondo le correzioni del Danville, fatte dietro gl'itinerari e le migliori carte moderne (Analyse de l'Italie, p. 147-162), può determinarsi nel modo che segue: da Roma a Narni, 51 miglia romani; a Terni, 57; a Spoleto, 75; a Foligno, 88; a Nocera, 103; a Cagli, 142; ad Intercisa, 157; a Fossombrone, 160; a Fano, 176; a Pesaro, 184; a Rimini, 208; circa 189 miglia inglesi. Egli non parla della morte di Totila; ma Vesselingio (Itinerar. p. 614) in luogo del campo di Tagina mette l'incognito nome di Ptanias in distanza di otto miglia da Nocera.

<p>135</p>

Tagina, o veramente Tadina, vien ricordata da Plinio; ma la sede vescovile di questa oscura città, posta nella pianura distante un miglio da Gualdo, fu riunita nel 1007 a quella di Nocera. Si conservano i segni dell'antichità nei nomi dei luoghi, come Fossato (il campo), Capraja (Caprea), Bastia (Busta gallorum). Vedi Cluverio (Italia antiqua, l. II c. 6 p. 615, 616, 617), Luca Olstenio (Adnot. ad Cluver. p. 85, 86), Guazzesi (dissert. p. 177-217, che di ciò tratta ex professo), e le carte dello Stato ecclesiastico pubblicate da Le Maire, e Magini.

<p>136</p>

Avvenne questa battaglia nell'anno di Roma 458, ed il Console Decio, col sacrificare la propria vita, assicurò il trionfo della sua patria e del suo collega Fabio (Tito Livio, X, 28, 29). Procopio ascrive a Camillo la vittoria di Busta Gallorum; ed il suo errore vien impugnato da Cluverio col nazionale rimprovero di Graecorum nugamenta.

<p>137</p>

Teofane, Chron. p. 193. Hist. Miscell. l. XVI p. 108.

<p>138</p>

Evagrio, l. IV c. 24. L'inspirazione della Vergine rivelò a Narsete il giorno e la parola d'ordine della battaglia. (Paolo Diacono, l. II c. 3 p. 776).

<p>139</p>

Επι τουτου βασιλευοντος το πεμπτον εαλω. (Regnando lui presa cinque volte). Nell'anno 536 da Belisario, nel 546 da Totila, nel 547 da Belisario, nel 549 da Totila, e nel 552 da Narsete. Maltrate si è apposto male traducendo sextum; errore che egli ritratta in appresso: ma il male era fatto; e Cousin, con una mano di lettori francesi e latini, era caduto nell'inganno.

<p>140</p>

Si paragonino due passi di Procopio (l. III c. 26; l. IV c. 24), i quali, aggiungendovi qualche lume tolto di Marcellino e da Giornande, illustrano lo stato del Senato spirante.

<p>141</p>

Vedi, nell'esempio di Prusia, come trovasi nei frammenti di Polibio (excert. legat. XCVII p. 927, 928) un curioso ritratto di uno schiavo regale.

<p>142</p>

Il Δρακων di Procopio (Goth. l. IV c. 35) è manifestamente il Sarno. Cluverio ne accusa od altera con violenza il testo (l. IV c. 3 p. 1156); ma Camillo Pellegrini di Napoli (Discorsi sopra la Campania Felice, p. 330, 331) ha provato con antichi documenti che sia dall'anno 822 quel fiume chiamavasi il Dracontio, o Draconcello.

<p>143</p>

Galeno (De Method. Medendi, l. V apud Cluver. l. IV c. 3 p. 1159, 1160) descrive il sito elevato, l'aria pura ed il prezioso latte del monte Lattario, i cui benefici effetti erano egualmente conosciuti e ricercati al tempo di Simmaco (l. VI epist. 18) e di Cassiodoro (Var. XI, 10). Nulla or ne rimane, tranne il nome della città di Lettere.