Il ritorno dell’Agente Zero . Джек Марс

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Il ritorno dell’Agente Zero  - Джек Марс


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russo si fermò alla porta d’acciaio. “Non uscirai vivo da qui,” disse in inglese.

      “Farai meglio a sperare che ci riesca,” ringhiò Reid. “Perché se no mi accerterò che non lo faccia neanche tu.”

      Otets aprì la porta e uscì sul pianerottolo. I suoni dei macchinari riecheggiarono subito fragorosi. Reid lo seguì fuori dall’ufficio e sulla piccola piattaforma d’acciaio. Abbassò lo sguardo oltre la ringhiera, verso il piano sotto. Le sue idee, o quelle di Kent? erano state corrette. C’erano due uomini a lavoro su una pressa idraulica. Un altro era davanti al corto nastro trasportatore, a ispezionare componenti elettronici che rotolavano lentamente verso una superficie metallica alla fine. Altri due con indosso occhialini e guanti di latex sedevano a un tavolo di melamina, misurando con cura qualche tipo di sostanza chimica. Stranamente, notò che erano di varie nazionalità, tre erano bianchi e con i capelli scuri, probabilmente russi, ma due erano di certo mediorientali. L’uomo alla pressa era africano.

      L’odore di mandorle del dinitrotoluene gli colpì le narici. Stavano producendo esplosivi, come aveva dedotto in precedenza dall’odore e dai suoni.

      Sei in tutto. Probabilmente armati. Nessuno di loro alzò lo sguardo verso l’ufficio. Non spareranno qui dentro, non con Otets all’aperto e queste sostanze chimiche tutte in giro.

      Ma non posso neanche io, pensò Reid.

      “Impressionante, no” disse Otets con un ghigno. Aveva notato che Reid stava ispezionando il piano.

      “Muoviti,” comandò lui.

      Otets prese le scale, le sue scarpe rumorose sul primo gradino metallico. “Sai,” disse casualmente, “Yuri aveva ragione.”

      Esci di qui. Vai al SUV. Abbatti il cancello. Guida come se ti inseguissero tutti i diavoli dell’inferno.

      “Ti serve uno di noi.”

      Torna sull’autostrada. Trova una stazione di polizia. Coinvolgi l’Interpol.

      “E il povero Yuri è morto…”

      Dagli Otets. Costringilo a parlare. Scagionati dall’omicidio di sette uomini.

      “Quindi penso che tu non possa uccidermi.”

      Ho ucciso sette uomini.

      Ma è stata legittima difesa.

      Otets raggiunse l’ultimo gradino, Reid dietro di lui con le mani infilate nelle tasche della giacca. Aveva i palmi sudati, ognuno stretto attorno a una pistola. Il russo si fermò e si lanciò una rapida occhiata dietro la spalla, senza guardare veramente Reid. “Gli iraniani. Sono morti?”

      “Quattro di loro,” rispose lui. Il fracasso dei macchinari quasi soffocò la sua voce.

      Otets schioccò la lingua. “Peccato. Ma d’altra parte… significa che non mi sbaglio. Non hai piste, nessun’altro da cui andare. Ti servo.”

      Stava scoprendo il bluff di Reid. Il panico gli salì nel petto. L’altra parte, la parte che era Kent, lottò contro di esso, come costringendolo a deglutire una pillola a secco. “Ho tutto quello che lo sceicco ci ha detto…”

      Otets ridacchiò. “Lo sceicco, già. Ma ti sarai già accorto che Mustafar sapeva molto poco. Era solo un conto in banca, agente. Era un debole. Credevi che gli avremmo detto i nostri piani? E se fosse così, perché allora saresti venuto fin qui?”

      La fronte di Reid si coprì di sudore. Era andato lì nella speranza di trovare delle risposte, non solo su questo fantomatico piano ma anche su chi fosse lui stessi. Aveva trovato molto più di quanto avrebbe voluto. “Muoviti,” ordinò di nuovo. “Verso la porta, lentamente.”

      Otets scese dalle scale, muovendosi piano, ma non si incamminò verso la porta. Invece fece un passo verso il laboratorio, e i suoi uomini.

      “Che cosa stai facendo?” volle sapere Reid.

      “Fammi vedere le tue carte, agente Zero. Se mi sbaglio, allora mi sparerai.” Sorrise e fece un altro passo.

      Due degli operai alzarono lo sguardo. Dalla loro prospettiva, sembrava che Otets stesse semplicemente parlando con uno sconosciuto, forse un socio d’affari o un rappresentante di un’altra fazione. Nessun motivo per allarmarsi.

      Il panico salì di nuovo nel petto di Reid. Non voleva lasciare andare le pistole. Otets era a soli due passi di distanza, ma Reid non poteva afferrarlo e spingerlo verso la porta, non senza allertare i sei uomini. Non poteva rischiare di sparare in una stanza piena di esplosivi.

      “Do svidaniya, agente.” Otets sorrise. Senza togliere gli occhi di dosso a Reid gridò in inglese: “Sparate a quest’uomo!”

      Due lavoratori alzarono lo sguardo, guardandosi tra di loro e Otets in preda alla confusione. Reid ebbe l’impressione che fossero semplicemente operai, non soldati o guardie del corpo come il paio di scagnozzi morti al piano di sopra.

      “Idioti!” ruggì Otets sopra al rumore dei macchinari. “Quest’uomo è della CIA! Sparategli!”

      Quello attirò la loro attenzione. I due uomini al tavolo della melamina si alzarono rapidamente e misero mano alle fondine da spalla. L’uomo africano alla pressa pneumatica si abbassò per prendere un AK-47 ai suoi piedi.

      Non appena si mossero, Reid saltò in avanti, tirando allo stesso tempo le mani, ed entrambe le pistole, fuori dalle tasche. Fece girare Otets per una spalla e sollevò la Beretta alla tempio sinistra del russo, per poi puntarla verso l’uomo con l’AK, stringendo a sé il capo.

      “Non sarebbe molto saggio,” disse ad alta voce. “Sai che cosa potrebbe succedere se iniziassimo a sparare qui.”

      La vista di una pistola alla tempia del loro capo spinse tutti gli altri uomini in azione. Aveva avuto ragione: erano tutti ben armati e ora aveva sei pistole puntate su di lui con solo Otets a frapporsi tra di loro. L’uomo con l’AK i mano guardò nervosamente verso i suoi compagni. Un sottile rivolo di sudore gli scivolò sul lato della fronte.

      Reid fece un piccolo passo indietro, attirando Otets con sé con una spinta della Beretta. “Bravo, tranquillo,” disse a bassa voce. “Se iniziano a sparare qui, tutto il posto potrebbe saltare per aria. E non credo che tu voglia morire oggi.”

      Otets strinse i denti e mormorò un’imprecazione in russo.

      Poco alla volta indietreggiarono, un minuscolo passo alla volta, verso le porte dell’impianto. Il cuore di Reid minacciava di esplodergli fuori dal petto. I suoi muscoli si tesero nervosamente, e poi si distesero mentre l’altra parte di lui lo costrinse a rilassarsi. Rilassa le membra. I muscoli tesi rallenterebbero le tue reazioni.

      Per ogni minuscolo passo che lui e Otets facevano all’indietro, i sei uomini ne facevano uno avanti, mantenendo la stessa breve distanza tra di loro. Stavano aspettando un’opportunità, e più si allontanavano dalle macchine e meno era probabile che innescassero inavvertitamente una reazione. Reid sapeva che era solo la possibilità di uccidere accidentalmente Otets che gli impediva di sparare. Nessuno parlava, ma le macchine ronzavano dietro di loro. La tensione nell’aria era palpabile, elettrica; era consapevole che in qualsiasi momento qualcuno avrebbe potuto farsi prendere dai nervi e cominciare a far fuoco.

      Poi la sua schiena si appoggiò alle doppie porte. Un altro passo e le aprì, attirando Otets con sé con una spinta della canna della pistola.

      Prima che le porte si chiudessero di nuovo, Otets ringhiò ai suoi uomini: “Non deve uscire vivo di qui!”

      Poi si richiusero, e i due uomini si ritrovarono nella sala successiva, quella adibita alla vinificazione, piena del tintinnio delle bottiglie e del dolce profumo dell’uva. Non appena l’ebbero attraversata, Reid si girò con la Glock puntata a livello di un torso umano, continuando a puntare la Beretta su Otets.

      Le macchina per l’imbottigliamento e la chiusura erano attive, ma era quasi tutto automatizzato. L’unica persona presente in tutta la stanza era una donna russa dall’aria stanca che indossava un foulard verde legato attorno alla testa. Alla vista delle pistole, Reid e Otets, i suoi occhi affaticati si sgranarono per


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