Una Ragione per Temere . Блейк Пирс

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Una Ragione per Temere  - Блейк Пирс


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sedia di tela, intenta a guardare i suoi figli che pattinavano, e trattenne il fiato. Era metà gennaio e la temperatura era salita di pochissimo sopra lo zero nell’ultima settimana e mezzo.

      I suoi figli, più furbi di quanto non le facesse piacere ammettere, sapevano che quelle temperature tanto estreme significavano che la maggior parte del Charles River sarebbe stata completamente ghiacciata. Era per quello che era andata nel garage e aveva tirato fuori i pattini per la prima volta in quell’inverno. Li aveva allacciati, aveva affilato le lame e aveva preparato tre termos di cioccolata calda, uno per lei e uno per ciascuno dei suoi figli.

      Ora li stava guardando mentre pattinavano da una riva all’altra con la velocità sconsiderata ma magnifica di cui solo i bambini erano capaci. La parte del fiume dove erano andati, una zona diritta ma stretta in mezzo alla foresta, ad appena due chilometri e mezzo di distanza da casa loro, era un’unica lastra di ghiaccio. Lì c’erano circa sei metri da una riva all’altra e più distante lungo il fiume si apriva uno spazio più ampio ancora, di circa nove metri. Denice aveva attraversato goffamente il ghiaccio e aveva appoggiato dei piccoli coni arancioni—quelli che i suoi figli a volte usavano per gli allenamenti di calcio—per mostrar loro dove fermarsi.

      Continuò a guardarli—Sam, di nove anni e Stacy, di dodici—che ridevano insieme e si godevano la reciproca compagnia. Quella non era una cosa che succedeva spesso per cui Denice era disposta a sopportare il freddo intenso.

      C’era anche qualche altro ragazzino. Denice ne conosceva qualcuno ma non abbastanza da intavolare una conversazione con i genitori, anche loro seduti sugli argini. La maggior parte dei ragazzi sul ghiaccio era più grande, probabilmente agli ultimi anni delle medie da quello che ne capiva. C’erano tre maschietti impegnati in una partita di hockey estremamente disorganizzata e un’altra ragazza che stava cercando di imparare a fare le piroette.

      Denice controllò l’orologio. Avrebbe lasciato altri dieci minuti ai figli e poi sarebbero andati a casa. Magari si sarebbero seduti davanti al camino e avrebbero guardato qualcosa su Netflix. Forse persino uno di quei film di supereroi che Sam stava iniziando ad apprezzare.

      Le sue riflessioni furono interrotte da uno strillo acuto. Guardò verso il fiume e vide che Stacy era caduta. Stava gridando, con il volto rivolto verso il ghiaccio.

      In quel momento ogni genere di istinto materno attraversò Denice. Una gamba rotta, una storta alla caviglia, una concussione…

      Aveva ipotizzato ogni possibile scenario quando finalmente ebbe attraversato il ghiaccio. Scivolò e incespicò affrettandosi verso Stacy. Anche Sam aveva pattinato fino alla sorella e stava fissando il ghiaccio. Solo che Sam non stava gridando. Più che altro sembrava paralizzato.

      “Stacy?” chiese Denice, quasi senza nemmeno sentire le proprie parole sopra le grida della figlia. “Stacy, tesoro, che cosa c’è?”

      “Mamma?” domandò Sam. “Cosa… cosa è quello?”

      Confusa, Denice raggiunse Stacy e si inginocchiò sul ghiaccio accanto a lei. Non sembrava ferita. Raggiunta finalmente dalla madre, aveva smesso di gridare ma stava tremando. Indicava il ghiaccio e stava cercando di aprire la bocca per dire qualcosa.

      “Stacy, quale è il problema?”

      Poi Denice vide la forma sotto il ghiaccio.

      Era una donna. Il suo volto era di una pallida sfumatura di blu e i suoi occhi erano spalancati. Erano rivolti verso l’alto, attraverso il ghiaccio, in uno stato di terrore congelato. I capelli biondi si attorcigliavano da una parte all’altra attorno al suo cranio, bloccati in una posizione scompigliata.

      Il volto che la fissava, tutto occhi sgranati e pelle pallida, sarebbe tornato a visitarla nei suoi incubi per mesi a venire.

      Ma in quel momento, tutto ciò che Denise poté fare fu gridare.

      CAPITOLO UNO

      Avery non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva fatto uno shopping tanto scatenato. Non era certa di quanti soldi avesse speso perché aveva smesso di prestarci attenzione alla seconda tappa. A dir il vero quasi non aveva guardato gli scontrini. Rose era con lei e quello, di per sé, non aveva prezzo. Quando le fosse arrivato il conto forse l’avrebbe pensata diversamente, ma fino a quel momento ne valeva la pena.

      Con le prove di quel lusso dentro piccole buste alla moda vicino ai suoi piedi, Avery guardò Rose dall’altra parte del tavolo. Erano sedute in un locale trendy nel Leather District di Boston, un posto scelto da Rose chiamato Caffe Nero. Il caffè aveva un prezzo scandaloso ma era il migliore che Avery avesse assaggiato da tempo.

      Rose era a telefono, intenta a mandare un messaggio a qualcuno. Di solito Avery si sarebbe irritata, ma stava imparando a lasciar correre. Se lei e Rose volevano aggiustare il loro rapporto, dovevano fare dei compromessi. Doveva ricordare a se stessa che c’erano ventidue anni tra di loro e che Rose stava diventando una donna in un mondo molto diverso rispetto a quello in cui era cresciuta lei.

      Quando Rose ebbe finito con il messaggio, appoggiò il telefono sul tavolo e lanciò uno sguardo di scuse ad Avery.

      “Scusa,” disse.

      “Non c’è problema,” rispose Avery. “Posso chiederti chi era?”

      Rose sembrò rifletterci per un momento. Avery era consapevole che anche lei si stava impegnando per trovare una via di mezzo nel loro rapporto. Ancora non aveva deciso quanta parte della sua vita personale voleva lasciar conoscere alla madre.

      “Marcus,” disse piano.

      “Oh. Non sapevo che foste ancora insieme.”

      “Non lo siamo. Non esattamente. Beh… non lo so. Forse sì.”

      Avery sorrise a quella spiegazione, ricordandosi come era quando gli uomini sembravano complicati ma intriganti allo stesso tempo. “Beh, uscite insieme?”

      “Credo che potrei dire così,” disse Rose. Non le stava concedendo molto a parole ma Avery vedeva il rossore che saliva sulle guance della figlia.

      “Ti tratta bene?” chiese la detective.

      “La maggior parte delle volte, sì. È solo che vogliamo cose diverse. Lui non è il tipo di uomo che ha degli obiettivi precisi. È più uno che prende la vita come viene.”

      “Beh, lo sai che non mi dispiace se vuoi parlarmene,” disse Avery. “Sono sempre disposta ad ascoltarti. O a parlare. O a darti una mano a mandare a quel paese chi ti sta dando fastidio. Con il mio lavoro… sei praticamente l’unica amica che ho.” Dentro di sé sussultò per quanto sembrasse patetico ma ormai era troppo tardi per ritirarlo.

      “Questo lo so, mamma,” rispose Rose. Poi con un sogghigno aggiunse: “E non riesco a dirti quanto sia triste.”

      Scoppiarono insieme a ridere ma segretamente, Avery era meravigliata da quanto la figlia somigliasse a lei in quel momento. Non appena la conversazione si faceva troppo intima o personale, Rose tendeva a interromperla con il silenzio o una battuta. In altre parole, tale madre tale figlia.

      Nel mezzo della loro risata, una cameriera minuta e carina si avvicinò, la stessa che aveva preso i loro ordini e aveva portato i caffè. “Un altro giro?” chiese.

      “Per me no,” rispose Avery.

      “Neanche per me,” aggiunse Rose. Poi si alzò mentre la cameriera si allontanava. “In realtà devo cominciare ad andare,” spiegò. “Ho quell’incontro con il consigliere scolastico tra un’ora.”

      Quella era un’altra faccenda su cui Avery aveva paura di dire la cosa sbagliata. Era emozionata che Rose avesse finalmente deciso di andare al college. A diciannove anni, si era preparata e aveva preso appuntamento con i consiglieri del community college di Boston. Da quello che ne capiva Avery, significava che era pronta a fare qualcosa della sua vita ma non era del tutto disposta ad abbandonare certe cose familiari, tra cui, potenzialmente, un rapporto teso ma che poteva essere aggiustato con la madre.

      “Poi


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