Il Nostro Sacro Onore. Джек Марс

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Il Nostro Sacro Onore - Джек Марс


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DC. Per decenni era stata la residenza ufficiale del vicepresidente degli Stati Uniti.

      Si metteva sempre alla grande finestra a golfo visibile sul monitor, a fissare i bellissimi prati in pendenza del campus dell’Osservatorio navale. Il sole del pomeriggio passava per quella finestra, in un gioco incredibile di luci e ombre. Per cinque anni, aveva vissuto in quella casa da vicepresidente. L’aveva adorata, e ci si sarebbe ritrasferita in un battito di ciglia, se avesse potuto.

      Ai vecchi tempi, di pomeriggio e di sera, usciva a fare jogging sul terreno dell’Osservatorio con gli uomini dei servizi segreti. Quelli erano anni di ottimismo, di discorsi entusiasmanti, di saluti e incontri con migliaia di americani speranzosi. Ormai sembrava una vita fa.

      Susan sospirò. La mente vagava. Ricordò il giorno dell’attentato a Mount Weather, l’atrocità che l’aveva catapultata fuori dalla sua felice vita da vicepresidente nel furente tumulto degli ultimi anni.

      Scosse la testa. No, grazie. Non avrebbe pensato a quel giorno.

      Attraverso lo specchio, su una piccola pedana, si trovavano due uomini e una donna. I fotografi vagavano come moscerini, scattando foto a loro.

      Uno degli uomini sulla pedana era basso e calvo. Indossava una lunga toga. Era Clarence Warren, presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti. La donna si chiamava Judy Lief. Indossava un tailleur azzurro brillante. Aveva un sorriso che andava da un orecchio all’altro e teneva una Bibbia aperta in mano. Il marito, Stephen, aveva messo la mano sinistra sulla Bibbia. La destra era sollevata. Lief veniva spesso considerato arcigno, ma persino lui sorrideva un po’.

      “Io, Stephen Douglas Lief,” disse, “giuro solennemente di sostenere e difendere la Costituzione degli Stati Uniti contro tutti i nemici, esterni e interni.”

      “Di serbarle fedeltà…” suggerì il giudice Warren.

      “Di serbarle fedeltà e vero affidamento,” disse Lief. “Senza alcuna riserva mentale, e di bene e fedelmente adempiere ai doveri della carica che sto per assumere.”

      “Dio mi aiuti,” disse il giudice Warren.

      “Dio mi aiuti,” disse Lief.

      Nella mente di Susan apparve un’immagine – un fantasma del passato recente. Marybeth Horning, l’ultima persona ad aver prestato quel giuramento. Era stata una mentore per Susan al Senato, e una specie di mentore da vicepresidente. Con la sua figura piccola e sottile e i grandi occhiali, sembrava un topolino, ma ruggiva come un leone.

      Poi le avevano sparato e l’avevano uccisa per… cosa? Per la sua politica liberale, si potrebbe dire, ma non era vero. Alla gente che l’aveva uccisa le differenze politiche non interessavano – tutto ciò che interessava loro era il potere.

      Susan sperava che il paese potesse superare la cosa, adesso. Osservò Stephen in tv abbracciare la sua famiglia e altri amici.

      Si fidava di quell’uomo? Non lo sapeva.

      Avrebbe cercato di farla uccidere?

      No. Non credeva. Lui aveva più integrità. Non aveva mai sentito che fosse un subdolo, quando era senatrice. Immaginava che fosse un inizio – aveva un vicepresidente che non avrebbe cercato di ucciderla.

      Si immaginò i giornalisti del New York Times e del Washington Post chiedere: “Cosa le piace dell’idea di avere Stephen Lief come suo nuovo vicepresidente?”

      “Be’, non mi ucciderà. E questo mi dà una bella sensazione.”

      Poi Kat Lopez fu al suo fianco.

      “Uh, Susan? La microfoniamo così può congratularsi con il vicepresidente Lief e dirgli due parole di incoraggiamento.”

      Susan balzò fuori dal sogno a occhi aperti. “Certo. Buona idea. Probabilmente gli faranno comodo.”

      CAPITOLO TRE

      23:16 ora di Israele (16:16 ora della costa orientale)

      Linea Blu, confine tra Israele e Libano

      “Non obbedite ai mentitori, ai miscredenti,” sussurrava il diciassettenne.

      Fece un respiro profondo.

      “Lottate contro di essi vigorosamente. Combatteteli finché Allah li castighi per mano vostra, li copra di ignominia, vi dia la vittoria su di loro.”

      Il ragazzo era decisamente agguerrito. A quindici anni aveva lasciato casa e famiglia per entrare nell’Esercito di Dio. Aveva attraversato il confine in Siria e aveva trascorso gli ultimi due anni a combattere strada per strada, faccia a faccia e a volte corpo a corpo gli apostati di Daesh, come avevano chiamato l’ISIS gli occidentali.

      Daesh non aveva paura di morire – anzi, quelli la morte l’accoglievano con entusiasmo. Molti di loro erano vecchi ceceni e iracheni, difficilissimi da uccidere. Gli ultimi giorni passati a opporsi a loro erano stati un incubo, ma il ragazzo era sopravvissuto. In due anni aveva combattuto tante battaglie e ucciso tanti uomini. E aveva imparato molto sulla guerra.

      Ora si trovava nell’oscurità della pendice di una collina del nord di Israele. Si sistemò un lanciarazzi anticarro sulla spalla destra. Ai primi tempi un razzo pesante come quello gli avrebbe bucato la spalla, e dopo un po’ le ossa avrebbero cominciato a dolere. Però adesso era più forte. Il peso non gli faceva più tanta impressione.

      C’era una piccola schiera di alberi attorno a lui, e molto vicino, a terra, un gruppo di commando che osservavano la carreggiata sottostante.

      “Combattano dunque sul sentiero di Allah, coloro che barattano la vita terrena con l’altra,” disse, molto piano, sottovoce. “A chi combatte per la causa di Allah, sia ucciso o vittorioso, daremo presto ricompensa immensa.”

      “Abu!” sussurrò qualcuno ferocemente.

      “Sì.” La voce sua, invece, era calma.

      “Zitto!”

      Abu fece un respiro profondo e l’esalazione uscì lentamente.

      Era un esperto del razzo anticarro. Ne aveva sparati così tanti, ed era diventato così preciso, da essere adesso un uomo molto prezioso. Era una cosa che aveva imparato sulla guerra. Più a lungo si sopravviveva, più abilità si accumulavano, e migliore si diventava nel combattimento. Migliori si diventava, più preziosi si era, ed era ancor più probabile rimanere in vita. Ne aveva conosciuti molti che non era sopravvissuti a lungo in combattimento – una settimana, dieci giorni. Ne aveva incontrato uno che era morto il primo giorno. Se solo fossero riusciti a durare un mese, le cose avrebbero cominciato a farsi più chiare per…

      “Abu!” sibilò la voce.

      Annuì. “Sì.”

      “Pronto? Arrivano.”

      “Ok.”

      Si mise al lavoro, rilassato, quasi come se si stesse solo allenando. Sollevò il lanciarazzi e ne aprì il fondo. Sistemò la mano sinistra lungo la canna, leggermente, leggermente, finché non comparve l’obiettivo. Niente presa troppo ferma troppo presto. L’indice della mano destra accarezzava il meccanismo del grilletto. Si mise il mirino vicino alla faccia, ma non all’occhio. Gli piaceva tenere gli occhi liberi fino all’ultimo momento, in modo da acquisire il quadro intero prima di concentrarsi sui dettagli. Curvò leggermente le ginocchia, la schiena arcuata di pochissimo.

      Adesso vedeva venire dal convoglio della luce, dietro alla collina alla sua destra, in avvicinamento sulla strada. Le luci raggiunsero la sommità, gettando strane ombre. Qualche secondo dopo udì il rombo dei motori.

      Fece un altro respiro profondo.

      “Fermo…” disse una voce severa. “Fermo.”

      “Signore Allah,” disse Abu, le parole che uscivano rapidamente ora, e più forti di prima. “Guida le mie mani e i miei occhi. Consentimi di portare morte ai tuoi nemici, nel tuo nome e nel nome del tuo adoratissimo profeta Maometto, e di tutti i grandi


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