Operazione Presidente. Джек Марс

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Operazione Presidente - Джек Марс


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senza nessuna fretta, avvitò il silenziatore nella canna della pistola.

      “Sa,” disse, “che rumore farà questa pistola quando avrà sparato?”

      “Ga!” disse Norman. Gli tremava tutto il corpo senza controllo. Il sistema nervoso era impazzito – così tanti messaggi in arrivo tutti insieme, nel tentativo di spostarsi attraverso l’apparato, che Norman era congelato sul posto. Tutto ciò che riusciva a fare era tremare.

      Per la prima volta, si accorse che l’uomo indossava guanti neri di pelle.

      “Farà il rumore di un colpo di tosse. È così che la penso io di solito. Qualcuno ha tossito, una volta, e ha cercato di farlo piano per non disturbare nessun altro.”

      L’uomo premette la pistola a lato della testa di Norman.

      “Buonanotte, signor Norman. Mi dispiace che non abbia svolto il lavoro.”

      * * *

      L’uomo abbassò lo sguardo sui resti di Patrick Norman, ex investigatore indipendente. Era stato un uomo alto e magro con addosso un trench grigio con sotto un completo blu. Aveva la testa devastata, il lato destro esploso in un grosso foro d’uscita. Attorno alla testa del sangue si riversava sull’erba bagnata e scorreva per il sentiero. Se fosse continuato a piovere, probabilmente il sangue sarebbe stato lavato via.

      Ma il corpo?

      L’uomo porse la pistola a uno dei suoi assistenti, quello che prima, quella sera, aveva finto di essere un senzatetto. Il senzatetto, che pure indossava i guanti, si accucciò sul corpo e premette la pistola nel palmo destro del morto. Meticolosamente, premette ciascun dito di Norman sulla pistola in vari punti. Lasciò cadere l’arma a circa quindici centimetri dal corpo.

      Poi si alzò e scosse la testa con tristezza.

      “Che peccato,” disse con accento londinese. “Un altro suicidio. Immagino che trovasse il lavoro stressante. Troppi contrattempi. Troppe delusioni.”

      “La polizia ci crederà?”

      L’inglese offrì il fantasma di un sorriso.

      “Neanche un po’.”

      CAPITOLO DUE

      8 novembre

      3:17 ora dell’Alaska (7:17 ora della costa orientale)

      Versanti del monte Denali

      Parco nazionale del Denali, Alaska

      Luke Stone non si muoveva di un millimetro.

      Era accucciato assolutamente immobile su un tetto, dietro a una bassa tromba delle scale esterna fatta di cemento. La notte era pesante e calda – abbastanza da far sì che il sudore gli avesse inzuppato gli abiti. Respirava profondamente, le narici che divampavano, ma non emetteva suono. Il cuore gli batteva nel petto, lento ma forte, come un pugno che picchia ritmicamente su una porta.

      Bum-BUM. Bum-BUM. Bum-BUM.

      Sbirciò dietro l’angolo dell’annesso delle scale. Dall’altra parte, due uomini barbuti aspettavano con dei fucili automatici sulle spalle. Erano al parapetto dell’edificio, a guardare il porto sotto di loro. Chiacchieravano piano, ridendo di qualcosa. Uno si accese una sigaretta. Luke si allungò verso la gamba e fece scivolare il coltello da caccia a serramanico fuori dal nastro che glielo teneva alla caviglia.

      Mentre Luke osservava, apparve il grosso Ed Newsam, che comparve nella visuale da destra, camminando quasi con noncuranza.

      Il grosso uomo si avvicinò alle guardie. Adesso lo scorsero. Scorgere Ed Newsam era una frase allarmante. Ed portò le mani vuote in aria, ma continuò ad andare verso di loro. Uno degli uomini ringhiò qualcosa in arabo.

      Luke comparve all’improvviso da dietro l’angolo, coltello alla mano. Un secondo, andato. Si precipitò verso di loro, i passi pesanti che scricchiolavano sul tetto di ghiaino. Tre secondi, quattro.

      Gli uomini lo sentirono, si voltarono a guardare.

      Adesso Ed attaccò, afferrando il più vicino dalla testa, girandogliela ferocemente a destra.

      Luke colpì il suo uomo alto sul petto, facendolo cadere a terra. Gli atterrò sopra e ficcò forte il coltello nel pettorale dell’uomo. Lo perforò al primo tentativo. Gli schiacciò una mano sulla bocca, sentendo la peluria della barba. Accoltellò ancora e ancora, dentro e fuori, rapido, come il pistone di un macchinario.

      L’uomo si dimenava e si agitava nel tentativo di togliersi di dosso Luke, ma Luke gli schiaffò via le mani e continuò ad accoltellare. Il coltello faceva un rumore liquido ogni volta che perforava.

      Le braccia dell’uomo caddero sui fianchi. Gli occhi erano aperti, ed era ancora vivo, ma la voglia di lottare lo aveva lasciato.

      Finiscilo. Finiscilo adesso.

      Luke inclinò verso l’alto la testa dell’uomo, con la mano libera che ancora schiacciava forte contro alla bocca, e gli passò il coltello a serramanico sulla gola. Ne saltò fuori un getto di sangue.

      Fatto.

      Luke tenne la mano schiacciata contro la bocca finché l’uomo non se ne fu andato. Fissò il cielo nero della notte, lasciando che la vita rifluisse lentamente fuori dal suo avversario.

      “Guarda il tuo uomo,” disse la voce di Ed. “Guarda!”

      “Non voglio,” disse Luke. Continuò a fissare il cielo, la grande distesa della galassia della Via Lattea che gli riempiva la visuale. Erano visibili milioni di stelle. Era… non aveva parole per descriverla. Bellissima fu l’unica cosa che gli venne in mente. Voleva guardare quelle stelle per sempre. Sapeva che cosa avrebbe visto se avesse abbassato lo sguardo – aveva guardato già troppe volte, ormai.

      “Devi guardare, bello,” disse piano Ed. “È il tuo lavoro, guardare.”

      Luke scosse il capo. “No.”

      Ma non c’era scelta. Buttò un’occhiata al corpo sotto di lui. La barba nera dello jihadista era sparita. Il volto aspro era stato sostituito dai bei lineamenti di una donna. I capelli ricci e neri adesso erano lunghi e morbidi e castano chiaro.

      Luke stava coprendo la bocca di una donna con le mani. I suoi occhi azzurri e morti lo fissavano, ciechi – gli occhi di sua moglie Becca.

      Ed adesso sussurrava. “Sei stato tu, bello. L’hai uccisa.”

      Luke si svegliò d’improvviso.

      Si mise seduto di scatto nella profonda oscurità, il cuore che gli martellava in petto. Era nudo, e aveva il corpo ricoperto di sudore. I capelli erano un lungo groviglio arruffato. La barba bionda era folta quanto quella di un qualsiasi guerriero santo islamico. Con quei capelli e quella barba, e la pelle segnata, poteva tranquillamente passare per un senzatetto.

      Era avvolto in un sacco a pelo a mummia – tarato per il freddo estremo, venti gradi sottozero. Fuori dalla piccola tenda, fischiava il vento – la falda della tenda sbatteva rabbiosamente, un rumore così forte che riusciva a malapena a sentire il vento. Era a quasi cinquemila metri sul versante occidentale del Denali, e la montagna era già in pieno inverno. Due giorni prima era scoppiata una tempesta di neve, e il vento non aveva smesso di soffiare.

      Non accendeva un fuoco da quando era arrivata la tempesta. In quaranta ore, non aveva lasciato la tenda tranne che per urinare. Era a milleduecento metri dalla sommità, e sembrava che non ci sarebbe arrivato. Alcuni avrebbero detto che non sarebbe arrivato da nessuna parte.

      Era salito lassù impreparato in modo deplorevole – se ne era accorto adesso. Aveva portato abbastanza acqua per quattro giorni – era finita due giorni prima. Mangiava neve e ghiaccio per idratarsi, a quel punto. Andava bene così. Il peggio era il cibo. Si era portato un po’ di pasti pronti secchi. Adesso erano per la maggior parte andati. Quando era arrivata la tempesta, aveva cominciato a razionarli. Mangiava meno della metà delle calorie di cui aveva bisogno – per


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