La Corona Bronzea. Stefano Vignaroli

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La Corona Bronzea - Stefano Vignaroli


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Repubblica Serenissima di Venezia. Ponte nelle Alpi si trovava sulla strada Alemagna, che proseguiva verso nord, oltre i baluardi rocciosi delle Dolomie, fino a raggiungere le terre germaniche. Almeno una volta ogni due mesi gli abitanti del paese sconfinavano in Tirolo per fare scorta di birra. Alcuni di loro avevano cercato di imparare l’arte di distillare l’orzo e il luppolo per ricavarne il buon liquido ambrato e spumoso, ma data anche la difficoltà di comprendere la lingua degli amici tirolesi, non erano mai riusciti a ottenere un prodotto altrettanto buono come quello che andavano ad acquistare al di là del valico. Amilcare, che era particolarmente ghiotto di birra, ne aveva portato una certa scorta, che ormai però era agli sgoccioli.

      «In queste zone, non so perché, la birra diventa imbevibile. È solo un’ora e mezza che stiamo cavalcando ed è diventata calda come il piscio», disse Amilcare, scolando l’otre ed emettendo un rumoroso rutto.

      Lanciò il contenitore vuoto e floscio al compagno più giovane, che lo afferrò al volo e lo alzò sopra la bocca aperta, facendovi cadere le ultime gocce di liquido. Poi, deluso, lo agganciò dietro la sella. A Matteo, pur di mettere in corpo qualcosa di corroborante, andava bene anche il vino locale e così aveva arraffato un paio di otri di Rosso Conero dalle cantine del castello di Massignano. Si era reso conto che il vino rosso era buono anche se non era fresco, ma che se ne potevano ingerire quantità molto inferiori rispetto alla birra prima che iniziasse a girare la testa. Così, per il momento, cercava di non passarne al compare, che ne avrebbe bevuto in quantità esagerata senza rendersene conto.

      «Ho ancora sete! Passami il vino, Matteo!», quasi gridò Amilcare rivolto al suo compare, incurante che stavano avvicinandosi alle mura del castello di Rocca Priora, dopo aver attraversato rumorosamente il ponte di legno che permetteva di superare il fiume Esino.

      «Non se ne parla nemmeno!», rispose l’altro. «Dobbiamo rimanere lucidi, almeno fino all’ora di pranzo, per portare a termine la missione che ci è stata affidata dal Duca. Dopo che avremo infilzato allo spiedo il damerino di corte e la sua guardia del corpo, potremo festeggiare. Cerca di fare silenzio, piuttosto. Siamo sotto le mura del castello. Non vorrai mica tirarti addosso tutta una guarnigione di militi?»

      Amilcare fece un gesto con la mano, come se volesse scacciare un fastidioso insetto.

      «Il Duca ha detto che non dobbiamo preoccuparci, né qui a Rocca Priora, né quando saremo arrivati alla Torre di Montignano. Ha unto i cardini delle porte giuste e nessuno si curerà di noi. Vedi soldati che ci scrutano sui camminamenti della guardia?»

      «No, ma questo non è che mi rassicuri. Saranno ben nascosti, ma ci stanno di certo osservando.»

      «Ma non ci fermeranno. E alla torre di Montignano non troveremo nessuno. Avremo campo libero, prenderemo posizione, aspetteremo i due e li faremo secchi senza che neanche se ne accorgano. Un lavoretto semplice e pulito. Poi non resterà che tornare ad Ancona a riscuotere il compenso e via… Verso casa. Non vedo l’ora di ritornare alle nostre care montagne. E, appena possibile, stai sicuro che busserò alla porta del borgomastro di Vipiteno per fare una bella scorta di buona birra. Altro che vino!» E così dicendo emise un altro sonoro rutto in direzione di una feritoia sulle mura del castello, dietro la quale aveva avuto l’impressione di veder brillare occhi che osservavano la scena. Ma nessuno, dalla rocca, diede segno di vita e i due la superarono senza problemi. Avanzarono verso settentrione lungo la riva del mare, con i cavalli che faticavano un po’ ad avanzare nel terreno ghiaioso, fino a raggiungere il Mandracchio, un baluardo fatto ergere dal Piccolomini a difesa dell’entroterra dalle scorrerie dei pirati. Entrarono nella fortezza e fecero abbeverare i cavalli, poi si dissetarono essi stessi alla fonte di acqua fresca. Il piazzale, già di prima mattina era un andirivieni di persone di tutti i tipi, da contadini che con il carretto carico di frutta e ortaggi si dirigevano a vendere i loro prodotti al mercato di Monte Marciano, a signorotti locali che esigevano le decime dai contadini per continuare a coltivare i terreni di loro proprietà, ad armigeri che sellavano i cavalli, dopo averli accuratamente scelti nelle stalle. Uno stalliere si avvicinò a Matteo e Amilcare e, dopo aver superato il ribrezzo dovuto all’odore che essi emanavano, si rivolse a loro in maniera gentile.

      «Avete forse bisogno di cavalcature fresche, messeri? Per due denari prendo i vostri cavalli in consegna e ve ne do in cambio due ben riposati. Quando ripasserete di qui, al ritorno, potrete riprendere le vostre cavalcature.»

      «Non so se ripasseremo di qui al ritorno», replicò Matteo, facendo in modo che non fosse Amilcare a rispondere, essendo quest’ultimo molto più rude di modi rispetto a lui. «I cavalli sono del Duca di Montacuto, ed è meglio che glieli riportiamo. Ne va delle nostre teste. Piuttosto, dobbiamo raggiungere la torre di Montignano. Ormai non dovrebbe essere molto distante. Indicaci la strada migliore.»

      «Qual è la ricompensa per l’informazione?», chiese il ragazzo a Matteo, facendo buon viso a cattivo gioco.

      Matteo versò parte del vino rosso da una delle otri piene a quella che conteneva la birra, svuotata poc’anzi, e la offrì al giovane stalliere.

      «Questo dovrebbe essere sufficiente. Se poi non ti bastasse, posso sempre offrirti di annusare l’alito del mio compagno. Non c’è che da chiedere!»

      Il ragazzo guardò Amilcare con aria schifata e accettò l’otre che gli veniva porta.

      Prendete per il vallone e portatevi ai piedi della collina. Non dirigete verso il centro abitato di Monte Marciano, ma tenetevi verso destra a raggiungere la cresta del colle. Seguite sempre il sentiero sulla sommità della collina e giungerete alla torre molto prima dell’ora del desio. Buona fortuna!»

      «Buona fortuna a te, ragazzo. E grazie.» Matteo avrebbe quasi tirato fuori una moneta dal sacchetto che aveva loro elargito il Duca la sera precedente, ma lo sguardo di Amilcare lo fece desistere dal ricompensare ulteriormente lo stalliere.

      Ha ragione Amilcare, disse tra sé e sé Matteo. Con il suo fare gentile, costui potrebbe essere una spia e metterci alle costole dei ladri, una volta visto il sacchetto con le monete. Meglio non dover rischiare di perdere tempo a dover sgozzare dei volgari ladruncoli!

      Per il Duca Francesco Maria Della Rovere, cacciare il Medici da Urbino e rientrare in possesso delle sue terre Feltresche era ormai una questione di principio, ed era ormai giunto il momento giusto. Suo padre Giovanni Della Rovere, signore di Senigallia, aveva fatto edificare dall’architetto e stratega Francesco di Giorgio Martini una maestosa rocca a Mondavio, in pratica a metà strada tra Senigallia e Urbino. Francesco non capiva molto la posizione strategica di quella sontuosa rocca, in quanto essa si trovava del tutto all’interno dei loro possedimenti, e non in una posizione di confine, dove sarebbe stato giusto fosse. In quel punto non sarebbero stati mai attaccati, e infatti la rocca non aveva mai subito assedi da quando ne era stata terminata la costruzione, e da quel giorno erano passati quasi trent’anni. Ma la rocca era una maestosa fortezza e si presentava all’occhio umano come una spaventosa macchina da guerra, in cui ogni forma e struttura era studiata per resistere agli attacchi sferrati sia dalle armi tradizionali, a getto, sia dalle più moderne armi da fuoco, che ormai stavano sempre più diffondendosi. La rocca stessa era fornita delle più micidiali macchine da guerra conosciute: catapulte, trabucchi, bombarde e altre diavolerie micidiali. Nell’armeria erano presenti anche una tale quantità di fucili, pistole e archibugi, da poter armare una guarnigione di un migliaio di armigeri. Il deposito dove veniva conservata la polvere da sparo era ben isolato e protetto, e i custodi avevano appeso alle pareti un’immagine di Santa Barbara, a voler scongiurare, grazie alla sua protezione, il pericolo di scoppi accidentali.

      Pertanto il Duca aveva scelto di trasferirsi qui, lasciando la Rocca Roveresca di Senigallia, perché Mondavio rappresentava un ottimo punto di partenza per ripartire alla conquista di Urbino. E doveva farlo prima che ci arrivasse il Malatesta da Rimini o, peggio, da Pesaro. La tarda primavera dell’anno del Signore 1522 era il momento giusto per muovere le proprie guarnigioni. Il Papa Leone X era morto ed era stato sostituito dal Cardinale Adriano Florentz di Utrecht, che aveva preso il nome di Adriano VI. Questi era un burattino, i cui fili erano tirati dall’oligarchia ecclesiastica, e tutti erano convinti che non sarebbe durato molto prima che il Cardinale di Firenze, Giulio De’ Medici, avesse architettato qualcosa per riconquistare il soglio pontificio. Quindi bisognava


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