I promessi sposi. Alessandro Manzoni

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I promessi sposi - Alessandro Manzoni


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del solito, e dandogli un’occhiata più espressiva che riverente.

      Uscito poi, e camminando di mala voglia, per la prima volta, verso la casa della sua promessa, in mezzo alla stizza, tornava con la mente su quel colloquio; e sempre più lo trovava strano. L’accoglienza fredda e impicciata di don Abbondio, quel suo parlare stentato insieme e impaziente, que’ due occhi grigi che, mentre parlava, eran sempre andati scappando qua e là, come se avesser avuto paura d’incontrarsi con le parole che gli uscivan di bocca, quel farsi quasi nuovo del matrimonio così espressamente concertato, e sopra tutto quell’accennar sempre qualche gran cosa, non dicendo mai nulla di chiaro; tutte queste circostanze messe insieme facevan pensare a Renzo che ci fosse sotto un mistero diverso da quello che don Abbondio aveva voluto far credere. Stette il giovine in forse un momento di tornare indietro, per metterlo alle strette, e farlo parlar più chiaro; ma, alzando gli occhi, vide Perpetua che camminava dinanzi a lui, ed entrava in un orticello pochi passi distante dalla casa. Le diede una voce, mentre essa apriva l’uscio; studiò il passo, la raggiunse, la ritenne sulla soglia, e, col disegno di scovar qualche cosa di più positivo si fermò ad attaccar discorso con essa.

      — Buon giorno, Perpetua: io speravo che oggi si sarebbe stati allegri insieme.

      — Ma! quel che Dio vuole, il mio povero Renzo.

      — Fatemi un piacere: quel benedett’uomo del signor curato m’ha impastocchiate certe ragioni che non ho potuto ben capire: spiegatemi voi meglio perché non può o non vuole maritarci oggi.

      — Oh! vi par egli ch’io sappia i segreti del mio padrone? «L’ho detto io, che c’era mistero sotto,» pensò Renzo; e, per tirarlo in luce, continuò: — via, Perpetua; siamo amici; ditemi quel che sapete, aiutate un povero figliuolo.

      — Mala cosa nascer povero, il mio caro Renzo.

      — È vero, — rispose questo, sempre più confermandosi ne’ suoi sospetti; e, cercando d’accostarsi più alla questione, — è vero, — soggiunse, — ma tocca ai preti a trattar male co’ poveri?

      — Sentite, Renzo; io non posso dir niente, perché... non so niente; ma quello che vi posso assicurare è che il mio padrone non vuol far torto, né a voi nè a nessuno: e lui non ci ha colpa.

      — Chi è dunque che ci ha colpa? — domandò Renzo, con un cert’atto trascurato, ma col cuor sospeso, e con l’orecchio all’erta.

      — Quando vi dico che non so niente... In difesa del mio padrone, posso parlare; perché mi fa male sentire che gli si dia carico di voler far dispiacere a qualcheduno. Pover’uomo! se pecca, è per troppa bontà. C’è bene a questo mondo de’ birboni, de’ potenti, degli uomini senza timor di Dio...

      «Prepotenti! birboni!» pensò Renzo: «questi non sono i superiori. » Via, — disse poi, nascondendo a stento l’agitazione crescente, — via, ditemi chi è.

      — Ah! voi vorreste farmi parlare; e io non posso parlare, perché... non so niente: quando non so niente, è come se avessi giurato di tacere. Potreste darmi la corda , che non mi cavereste nulla di bocca. Addio; è tempo perduto per tutt’e due. — Così dicendo, entrò in fretta nell’orto, e chiuse l’uscio. Renzo, rispostole con un saluto, tornò indietro pian piano, per non farla accorgere del cammino che prendeva; ma, quando fu fuori del tiro dell’orecchio della buona donna, allungò il passo; in un momento fu all’uscio di don Abbondio; entrò, andò diviato al salotto dove l’aveva lasciato, ve lo trovò, e corse verso lui, con un fare ardito, e con gli occhi stralunati.

      — Eh! eh! che novità è questa? — disse don Abbondio.

      — Chi è quel prepotente, — disse Renzo, con la voce d’un uomo ch’è risoluto d’ottenere una risposta precisa, — chi è quel prepotente che non vuol ch’io sposi Lucia?

      — Che? che? che? — balbettò il povero sorpreso, con un volto fatto in un istante bianco e floscio, come un cencio che esca dal bucato. E, pur brontolando, spiccò un salto dal suo seggiolone, per lanciarsi all’uscio. Ma Renzo, che doveva aspettarsi quella mossa, e stava all’erta, vi balzò prima di lui, girò la chiave, e se la mise in tasca.

      — Ah! ah! parlerà ora, signor curato? Tutti sanno i fatti miei, fuori di me. Voglio saperli, per bacco, anch’io. Come si chiama colui?

      — Renzo! Renzo! per carità, badate a quel che fate; pensate all’ anima vostra.

      — Penso che lo voglio saper subito, sul momento. — E, così dicendo, mise, forse senza avvedersene, la mano sul manico del coltello che gli usciva dal taschino.

      — Misericordia! — esclamò con voce fioca don Abbondio.

      — Lo voglio sapere.

      — Chi v’ha detto...

      — No, no; non più fandonie. Parli chiaro e subito.

      — Mi volete morto?

      — Voglio sapere ciò che ho ragion di sapere.

      — Ma se parlo, son morto. Non m’ha da premere la mia vita?

      — Dunque parli.

      Quel «dunque» fu proferito con una tale energia, l’aspetto di Renzo divenne così minaccioso, che don Abbondio non poté più nemmen supporre la possibilità di disubbidire.

      — Mi promettete, mi giurate, — disse — di non parlarne con nessuno, di non dir mai...?

      — Le prometto che fo uno sproposito, se lei non mi dice subito subito il nome di colui.

      A quel nuovo scongiuro, don Abbondio, col volto, e con lo sguardo di chi ha in bocca le tenaglie del cavadenti, proferl: — don...

      — Don? — ripeté Renzo, come per aiutare il paziente a buttar fuori il resto; e stava curvo, con l’orecchio chino sulla bocca di lui, con le braccia tese, e i pugni stretti all’indietro.

      — Don Rodrigo! — pronunziò in fretta il forzato, precipitando quelle poche sillabe, e strisciando le consonanti, parte per il turbamento, parte perché, rivolgendo pure quella poca attenzione che gli rimaneva libera, a fare una transazione tra le due paure, pareva che volesse sottrarre e fare scomparir la parola, nel punto stesso ch’era costretto a metterla fuori.

      — Ah cane! — urlò Renzo. — E come ha fatto? Cosa le ha detto per...?

      — Come eh? come? — rispose, con voce quasi sdegnosa, don Abbondio, il quale, dopo un così gran sagrifizio, si sentiva in certo modo divenuto creditore. — Come eh? Vorrei che la fosse toccata a voi, come è toccata a me, che non c’entro per nulla; che certamente non vi sarebber rimasti tanti grilli in capo. — E qui si fece a dipinger con colori terribili il brutto incontro; e, nel discorrere, accorgendosi sempre più d’una gran collera che aveva in corpo, e che fin allora era stata nascosta e involta nella paura, e vedendo nello stesso tempo che Renzo, tra la rabbia e la confusione, stava immobile, col capo basso, continuò allegramente — avete fatta una bella azione! M’avete reso un bel servizio! Un tiro di questa sorte a un galantuomo, al vostro curato! in casa sua! in luogo sacro! Avete fatta una bella prodezza! Per cavarmi di bocca il mio malanno, il vostro malanno! ciò ch’io vi nascondevo per prudenza, per vostro bene! E ora che lo sapete? Vorrei vedere che mi faceste...! Per amor del cielo! Non si scherza. Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza. E quando, questa mattina, vi davo un buon parere... eh! subito nelle furie. Io avevo giudizio per me e per voi; ma come si fa? Aprite almeno; datemi la mia chiave.

      — Posso aver fallato, — rispose Renzo, con voce raddolcita verso don Abbondio, ma nella quale si sentiva il furore contro il nemico scoperto: — posso aver fallato; ma si metta la mano al petto, e pensi se nel mio caso...

      Così dicendo, s’era levata la chiave di tasca, e andava ad aprire. Don Abbondio gli andò dietro, e, mentre quegli girava la chiave nella toppa, se gli accostò, e, con volto serio e ansioso, alzandogli davanti agli occhi le tre prime dita della destra, come per aiutarlo anche lui dal canto suo, — giurate almeno... — gli disse.

      — Posso aver fallato; e mi scusi, — rispose Renzo, aprendo, e disponendosi


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