Più che l'amore: Tragedia moderna. Gabriele D'Annunzio

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Più che l'amore: Tragedia moderna - Gabriele D'Annunzio


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conosca «la gioia dello spirito», ch'egli non parli più, ch'egli non risponda più, che vivo sia dilaniato e divorato! Il coro vorticoso intorno al protetto d'Apolline volge il carme che incatena, l'inno senza lira, peste dei mortali. O amico, e non altrimenti, invaso dall'insania delle rugose Vendicatrici, il coro degli spettatori nella notte d'ottobre insorse contro l'affermazione dell'Ulisside. Ἀφόρμικτος era certo il suo ululo, ma non senza risonanza, come quello che palesava la radice inespugnabile della barbarie primitiva nell'anima civica. Il poeta tragico aveva compiuto il suo officio; che è di porre l'ardimento e la libertà dell'uomo dinanzi a un problema spaventevole. La folla voleva tagliare il nodo col rugginoso ferro del tallone, caduto dalle branche affievolite delle vecchie Erinni. «Ci scagliamo contro a lui, comunque valido ei sia, e struggiamo il sangue giovenile.» Tornare doveva dalle ripe dello Scamandro alla difesa Colei che non fu nutrita nelle tenebre della matrice ma nei lampeggiamenti del cervello maschio.

      Or ecco — tu lo vedi — nell'Areopago instituito, Oreste coronato d'olivo selvaggio è seduto sul sasso dell'Ingiuria. Presso di lui è il Divinatore, testimone e complice. Per la sua virtù di Onniveggente, il dio luminoso tutto comprende e tutto perdona. La sua pupilla solare, penetrante come il suo dardo, ritrova nel più segreto cuore la cagione della colpa. Al suo fuoco incorruttibile il vapore del crimine si dilegua. La potenza della sua luce dissolve ed assolve. Quivi, nella chiostra contemplata dal cielo attico, egli assiste il matricida contro la ferocia delle cagne inferne. «Siimi tu testimone, o Apolline» dice il fratello d'Elettra.

      L'invocazione dell'Ulisside al Sole del Tropico, all'Apolline libico, mi risuona dentro. Vedo «nel tristo sabbione della Costa» l'ombra del supplice senza lamento e senza ramo d'olivo seduta sopra il rottame del suo naufragio; e la tempesta le ha fatta una maschera di schiuma più spessa che la schiuma del cammello. Il dibàttito incomincia. Alle antiche parole si mescolano le nuove parole. «Può taluno infrangere le catene: rimedio v'ha a questo male e maniere molte di liberarsene; ma quando la polvere bevuto abbia il sangue dell'uomo ucciso, non v'ha alcuna sorta di resurrezione.» Gridano le Punitrici: «E come difenderai tu dunque l'innocenza di costui?»

      Nell'Areopago il dio sembra anch'egli armato della «dialettica faretra» quando raccoglie l'argomento fallace di Oreste e ne fa il nerbo della sua arringa. Qui, nella nuova disputa, non sarebbe egli tentato di mescolare la sottigliezza allo scherno, se avesse dinanzi a sé le vecchie succiatrici di vene umane? Similmente troverebbe egli il sofisma nelle parole dell'uccisore càuto. «Credi tu che il piccolo fatto senza sangue possa affascinare la ragione del combattente?» Ma egli assume l'attitudine disdegnosa che gli diede la grande arte dorica.

      Ed ecco un altro argomento, fornito dal colpevole: «Là, alla tavola del giuoco, nello scompiglio delle sorti, era una carne di goditore o una volontà di asceta, una bassa cupidigia o una fatalità eroica?»

      Ed eccone un altro ancóra: «Non per me, non per me! Basta a me un pugno d'orzo abbrustolito, la carne degli avvoltoi, l'acqua della cisterna o del pantano, e per sale la necessità di superarmi ogni giorno».

      Né l'uno né l'altro raccoglie il Difensore, né quanti altri il perduto Ulisside trae dal suo delirio di ribellione e di orgoglio; ma uno solo, quello fondato e consacrato dall'arte tragica. E, quando Pallade lascia cadere dalla sua mano infallibile la pietra bianca, il novo coro delle Erinni non urla, non geme, non si dibatte, non come l'antico impreca ai «giovini iddii che calpestarono le antiche leggi»; ma inalza nella serenità un cantico apollineo che forse un giorno sarò degno di ripetere ai miei fratelli vigilanti: non l'inno che incatena, bensì l'inno che riscatta, non la celebrazione della morte, sì bene la glorificazione della vita. Se sterili furono le cagne inferne, le nuove Erinni sono fertili di genitura ideale; e la cruenta materia ch'elle trattano è come la materia che si muove intorno alla pura bellezza.

      L'argomento supremo dei due giovini iddii assolutori è l'anima stessa della tragedia, è quasi direi il suo ritmico fonte, il centro della sua forza congegnata. L'eroe, votato all'errore e al dolore, soffre non per purificarsi d'una passione criminosa, non per espiare il suo peccato e per riacquistare la sua innocenza ma per essere — di là dal terrore e dalla pietà — «l'eterna gioia del divenire». Mentre appare paziente, egli raggiunge il grado massimo della sua attività; la quale, dopo di lui, continua a operare. La legge umana, l'ordine naturale, l'uso, il costume possono essere sovvertiti dal suo atto; ma il suo atto genera un cerchio di potenze più alte, una inaspettata sovrabbondanza di vita superna. Destinato a scomparire, l'eroe diffonde e perpetua intorno a sé la sua volontà eroica, che la colpa non può distruggere né menomare. In Corrado Brando non è glorificato il delitto, come pretendono i grossi e i sottili Beoti, ma son manifestate — con i segni proprii dell'arte tragica — l'efficacia e la dignità del delitto concepito come virtù prometèa. Intorno a lui, che soffre e che deve morire, tutte le anime rendono il lor massimo splendore, illuminano di vasti lampi il cielo dello spirito. Sembra che dalle profondità dell'Essere e del Fato tutti coloro de' quali egli è il figlio e il crimine, fedeli al lor cómpito pertinace, abbian tentato invano di sollevarlo verso l'eccelsa di quelle speranze che Promèteo pose tra i mortali affinché non prevedessero la morte. Or ecco, egli muore; e nessuno ha veduto nel suo pugno lo scettro come nessuno vede che le sue mani nell'ultimo gesto sollevano «fuor d'ogni vista» un cuore portentoso. «Il travaglio divino che affatica l'oscurità della massa umana, ecco, a un tratto ha toccato la cima di quel cuore per dar segno di sé, per rivelarsi.» L'officio dell'eroe tragico è compiuto. Il più sacro istinto della vita, della vita a venire, della vita che si perpetua, è tradotto nell'ultimo gesto con una grandezza religiosa. Lo sguardo ha esplorato il fondo dell'abisso e s'è risollevato a scoprire le nuove stelle. Sopra il mutamento e l'annientamento, la Natura soccorrevole ci offre l'imagine radiosa della creatura futura.

      Ho io voluto portare su la scena una maschera fedele dell'uomo effimero? È necessario ripetere ancóra che nello spazio scenico non può aver vita se non un mondo ideale? che il Carro di Tespi, come la Barca d'Acheronte, è così lieve da non poter sopportare se non il peso delle ombre o delle imagini umane? che lo spettatore deve aver coscienza di trovarsi innanzi a un'opera di poesia e non innanzi a una realtà empirica e ch'egli tanto è più nobil quanto più atto a concepire il poema come poema? Io ho diffuso ad arte la dubbiezza del crepuscolo su l'uno e su l'altro episodio; e ho voluto che il giorno della mia tragedia «al principio della primavera, fra due vespri» fosse un giorno di trasfigurazione.

      Mi piace, in questo pomeriggio di novembre così limpido che sembra annunziare sul Tirreno la precocità della quiete alcionia, mi piace di considerar con occhio senza nube l'aspetto dell'opera da cui mi accomiato e di riconoscere in qualche parte la sostanza medesima onde i miei maestri foggiavano i loro eroi sofferenti e morienti «per non più soffrire e per non più morire».

      Quando Marco Dàlio incontra il «battitore di vie ignote» che cammina a gran passi lungo la muraglia del Tevere sembrando sfavillare nel vento, egli pensa: «Chi lo fermerà?» E poi gli torna nella memoria quella risposta che potrebbe anch'essere dell'Ulisside: «Dove corri? — Inseguo il dio del quale io sono l'ombra».

      Tal risposta ricongiunge l'idealità di quella nuova figura con l'idealità delle grandi figure antiche sotto il cui velame si celavano gli aspetti del dio doloroso, dello Zagreo lacerato dai Titani, ch'era la sola persona tragica presente sempre nel drama primitivo come il Christus patiens nel nostro Mistero e nella nostra Lauda. Il dio si manifestava per atti e per parole in un eroe solitario, esposto al desiderio, alla demenza, al delitto, al patimento, alla morte. E l'eroe solitario diceva le parole formidabili che ripeterà con diverso accento ma con eguale intrepidità l'Ulisside: «Pronto io sono, per la mia mèta, a prendere su me quel che v'ha di peggio in terra, risoluto anche ai sacrifizii umani». Con durissimo sforzo sollevava egli su le sue spalle il peso spaventoso, ma sol per riconoscere che la sua mèta non era se non la distruzione di sé medesimo, la dissoluzione liberatrice dei suoi mali votata al trionfo della Volontà imperitura e al culto dell'eterna Gioia che è il polso della vita universa. Come l'Ulisside, egli disegnava con l'ultimo gesto l'imagine di un'altra esistenza e di un'altra virtù da lui presentite e intravvedute; alle quali non lo preparavano le sue vittorie ma la sua sconfitta e il suo perdimento.

      Dice Corrado Brando alludendo a sé medesimo: «La prova della mia dignità è nel miracolo invisibile». Anch'egli dunque


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