I Robinson italiani. Emilio Salgari

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I Robinson italiani - Emilio Salgari


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Andiamo, amici, al lavoro — disse il veneziano, quando spuntò il sole. — Prima di sera bisogna avere un ricovero.

      — Non dimentichiamo però la carne lasciata dalla tigre, signore — disse il marinaio. — Se continuiamo a mangiare frutta, fra due settimane non potremo più reggerci in piedi.

      — Con un po' di pazienza ci procureremo tutto, Enrico. Pensa che siamo sprovvisti d'ogni cosa, che siamo i più miseri di tutti i Robinson e che dovremo cominciare dalle cose di prima necessità. Fra un mese spero di non udirti più a lamentare.

      — È lungo un mese, signore. Sapete che comincio a soffrire per la mancanza del pane?...

      — Fra poco il pane abbonderà.

      — Lo dite sul serio?...

      — Sì, ma prima dovremo costruire il forno e per ora preferisco avere una capanna.

      — Diamine! Anche il forno! Avremo da lavorare molto, prima di possedere tuttociò che è necessario alla nostra esistenza.

      — In marcia! —

      Lasciarono la tenda, armati della lancia e della scure e si diressero verso la piantagione di bambù, la quale si estendeva per un lungo tratto, costeggiando una specie di pantano che conservava ancora delle traccie di umidità.

      Quella piantagione era formata da parecchie varietà di bambù. V'erano i tuldo che sono dei più grandi della specie, che in soli trenta giorni acquistano un'altezza da quindici a diciotto metri ed una grossezza di trenta centimetri; i balcua chiamati dagl'indigeni balcas-bans, pure altissimi ma sottili; i blume chiamati anche hauer-tgiutgiuk, armati di spine ricurve e coperti di foglie assai strette; i bambù selvaggi chiamati teba-teba, storti e pure spinosi, ed infine dei bambù giganti, i più alti e più grossi di tutti, poichè toccano sovente perfino trenta metri d'altezza con una circonferenza di un metro e mezzo a due, ma che sono però i meno solidi.

      — Qui abbiamo quanto ci occorre — disse il veneziano. — Voi non vi potete immaginare quante cose utilissime si possono ricavare da queste piante.

      — Da queste canne! — esclamò il marinaio, con tono incredulo. — Tutt'al più serviranno a fare delle case.

      — T'inganni, Enrico; anzi ti dirò che ben poche piante sono preziose e più utili di queste.

      — Sarei curioso di sapere a cosa ci potrebbero servire.

      — Cominciamo dai germogli, se vuoi: ti piacciono gli asparagi?

      — Gli asparagi!... Ma cosa c'entrano quei deliziosi....

      — Ah!... ti piacciono assai!... — lo interruppe il signor Albani. — Allora ti dirò che le giovani gemme di queste canne, cucinate in acqua e condite, somigliano ai nostri asparagi.

      Costruzione della capanna aerea. (Pag. 50).

      — Scherzate!...

      — No, quando avremo una pentola e dell'olio, te li farò assaggiare.

      — Dell'olio! — esclamarono il marinaio ed il mozzo stupiti. — Ma sperate di trovare degli olivi qui?...

      — No, poichè qui non crescono, ma lo troverò anche senza quelle piante.

      — Uomo miracoloso!... — esclamò Enrico.

      — Da questi bambù, specialmente da quello comune, si può estrarre lo zucchero o meglio una materia zuccherina che gl'indiani chiamano tabascir.

      — Terremoto di Genova!

      — Zitto, marinaio. I semi del bambù comune vengono mangiati come riso da molte popolazioni dell'Indo-Cina.

      — Anche il riso!...

      — Non è tutto. Colle foglie e coi fusti schiacciati, poi stemperati in acqua e uniti con un poco di cotone si ottiene una buona carta molto usata dai Chinesi. Coi fusti poi, tagliati a metà, si fanno condotti d'acqua per l'irrigazione dei campi, oppure si adoperano come tegole, o si fanno capanne solide e leggere, o aste per le lance, o scale, o palizzate mentre quelli spinati servono per fare dei recinti così formidabili da arrestare qualsiasi assalto. Colle foglie poi si possono fabbricare dei panieri, delle stuoie, dei tralicci, ecc.

      Volete infine dei recipienti?... Basta tagliare un bambù sopra e sotto i due nodi ed ecco un barilotto dove l'acqua si conserverà benissimo. Volete anche una barca?... Tagliate un bambù gigante, turate le due estremità, oppure serbate i due nodi a prua ed a poppa ed ecco un'ottima scialuppa. Cosa volete ottenere di più da una pianta?

      — No, Enrico, non bastano, e nella foresta troveremo altre piante più preziose che ci procureranno quello che non possono darci queste. Basta: al lavoro, amici. —

       Indice

      I tre uomini si misero al lavoro, abbattendo grande numero di bambù, specialmente dei più alti, ma molti anche di quelli spinosi, volendo il signor Albani costruire anche un recinto, per meglio difendersi dagli assalti delle tigri e che potesse anche servire per racchiudere gli animali che proponevasi di addomesticare.

      Atterrate le canne, il marinaio ed il mozzo cominciarono a trasportarle alla spiaggia, di fronte alla piccola cala, avendo scelto quel luogo per erigere la capanna, mentre il signor Albani, armato della lancia, entrava nella piantagione per cercare gli avanzi della grossa preda uccisa dalla tigre.

      Doveva avere però un altro scopo, perchè di tratto in tratto si arrestava, spostava i bambù ed esaminava il terreno con profonda attenzione, scavando qua e là delle buche, talvolta assai profonde. Pareva che volesse accertarsi della qualità della terra su cui crescevano quelle canne giganti.

      Aveva già fatto numerosi buchi servendosi della lancia, quando si arrestò dinanzi a un piccolo bacino pieno d'acqua, che si celava nel più fitto della piantagione.

      Esaminò il fondo, essendo l'acqua limpidissima e pochissimo alta, poi si risollevò, mormorando a più riprese:

      — Credo d'aver trovate le mie pentole!... Se quest'acqua non è stata assorbita, è segno che sotto lo strato di terra vi è uno strato impenetrabile. — Si rimboccò le maniche, si denudò le braccia e le immerse, rimuovendo la terra del fondo. Scavò per parecchi minuti esaminando sempre il fango che levava, poi estrasse una materia grigiastra, lievemente grassa.

      — Argilla, — disse, con una certa soddisfazione. — Non mi ero ingannato; ho trovato le mie pentole. —

      Continuò a scavare ricavando dell'altra argilla, ne fece una grossa palla che avvolse nella propria giacca, poi continuò a inoltrarsi nella piantagione, seguendo una specie di sentiero cosparso di bambù spezzati o piegati, che doveva essere stato aperto dal felino. Dopo dieci minuti giungeva in una piccola radura in mezzo alla quale scorse, distesa a terra, una grossa carcassa semi-spolpata e sanguinante.

      — Adagio, — mormorò, impugnando la lancia. — La tigre può trovarsi vicina. —

      Fiutò più volte l'aria per sentire se c'era odore di selvatico, odore che tradisce la presenza di quei grossi e feroci felini, poi s'avanzò cautamente, guardando dinanzi, a destra ed a sinistra.

      La preda abbattuta dalla tigre era un babirassa, animale grosso come un cervo, la cui carne è eccellente avendo il gusto di quella del cinghiale. Attorno alle ossa vi era ancora tanta polpa da nutrire dieci uomini affamati.

      Tagliò un bel pezzo


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