Le vergini delle rocce. Gabriele D'Annunzio

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Le vergini delle rocce - Gabriele D'Annunzio


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le vicende dei nuvoli rappresentate da grandi ombre mutabili comentando le mie finzioni interiori. Talvolta il silenzio si faceva così cupo e l'odore della morte su dalle gramigne putride mi ventava in viso così soffocante che io per istinto aderivo più forte al mio cavallo, quasi volendo riconoscermi vitale dalla sua vitalità impetuosa. Si lanciava allungandosi come un felino la bella bestia possente e pareva comunicarmi la fiamma inestinguibile che ardeva nel suo sangue puro. Allora, per qualche minuto, m'occupava l'ebrezza. Sviluppando l'impeto della corsa e del pensiero in una linea parallela alle gigantesche vertebre degli acquedotti, verso l'orizzonte ingombro, io sentivo nascere e dilatarsi in me un fervore indescrivibile, misto di orgasmo fisico, di orgoglio intellettuale, di speranze confuse; e secondava e moltiplicava le mie energie la presenza di quelle opere d'uomini, di quei superstiti testimonii umani su la totale morte, di quei terribili archi rossastri che cavalcano da secoli in una catena invitta contro la minaccia del cielo.

      Solo, senza consanguinei prossimi, senz'alcun legame comune, indipendente da ogni potestà familiare, padrone assoluto di me e del mio bene, io aveva allora profondissimo in quella solitudine — come in nessun altro tempo e in nessun altro luogo — il sentimento della mia progressiva e volontaria individuazione verso un ideal tipo latino. Io sentiva accrescersi e determinarsi il mio essere nei suoi caratteri proprii, nelle sue particolarità distinte, di giorno in giorno, sotto l'assiduo sforzo del meditare, dell'affermare e dell'escludere. L'aspetto della campagna, così preciso e sobrio nella sua membratura e nel suo colore, m'era di continuo esempio e di continuo stimolo, avendo pel mio intelletto l'efficacia di un insegnamento sentenziale. Ciascuno sviluppo di linee, in fatti, s'inscriveva sul cielo col significato sommario di una sentenza incisiva e con l'impronta costante di un unico stile.

      Ma la virtù mirabile d'un tale insegnamento era in questo: che, mentre mi portava a conseguire nella mia vita interiore l'esattezza di un disegno studiato, non inaridiva le fonti spontanee della commozione e del sogno, anzi le eccitava a un'attività più alta. D'improvviso un solo pensiero mi diveniva così intenso e così ardente che m'appassionava sino al delirio, come una speciosa forma creata da un prestigio; e tutto il mio mondo n'era sparso d'ombre e di luci nuove. Un getto di poesia erompeva dall'intimo empiendomi l'anima di musica e di freschezza ineffabili; e i desiderii e le speranze s'alzavano con un felice ardire. — Così talvolta su l'Agro il tramonto d'autunno versava la lava impalpabile delle sue eruzioni: lunghe correnti sulfuree solcavano il piano ineguale; le bassure s'empivano di tenebra, simili a voragini allora aperte; gli acquedotti s'incendiavano dalle basi ai fastigi; tutta la landa pareva tornata alle sue origini vulcaniche nell'alba dei tempi. — Così talvolta su dall'erba molle disfavillante al mattino le allodole si partivano subitamente cantando con un'ascensione vertiginosa, come spiriti di gioia in alto in alto rapiti nel più puro azzurro, invisibili ad occhi umani, e su la mia anima attonita la cupola del cielo echeggiava tutta quanta della loro ebrezza canora.

      Quella solitudine poteva dunque dare, più d'ogni altra, il grado di follia e il grado di lucidità necessarii a un asceta ambizioso: a un asceta il quale, rinnovellando il senso originario della parola austera, volesse come gli antichi agonisti prepararsi con rigida disciplina alle lotte e alle dominazioni terrene.

      “Quale ardua colonna, quale igneo deserto, qual cima inaccessa, qual caverna senza fondo, quale stagno febrifero, qual più ermo più nudo e più tragico luogo può vincer questo nella virtù di accendere la scintilla sacra della follia in colui che si creda destinato a incidere su nuove tavole nuove leggi per l'anima religiosa dei popoli?„ io pensava, mentre i presentimenti delle forme increate sorgevano in me favorite da quel silenzio medesimo in cui si adunavano tante forme estinte di nostra umanità. “Qui tutto è morto, ma tutto può rivivere all'improvviso in uno spirito che abbia una dismisura e un calore bastevoli a compiere il prodigio. Come imaginare la grandezza e la terribilità d'una tal resurrezione? Colui il quale potesse contenerla nella sua coscienza parrebbe a sè medesimo e agli altri invasato da una forza misteriosa e incalcolabile, assai maggiore di quella che assaliva la Pitia antica. Per la sua bocca non parlerebbe il furor d'un dio presente nel tripode, ma sì bene il genio stesso delle stirpi custode funereo d'innumerevoli destini già compiuti. Il suo oracolo non sarebbe uno spiraglio dischiuso verso un mondo soprasensibile ma l'ammonimento di tutte le saggezze umane mescolato al soffio della Terra, di questa prima vaticinatrice secondo il verbo di Eschilo. E un'altra volta le moltitudini si chinerebbero d'avanti all'apparenza divina della sua follia, non come in Delfo per sollecitare le oscure sentenze del dio obliquo, ma per ricevere il lucido responso della vita anteriore, quel responso che non diede il Nazareno. Troppo era ignaro costui e troppo era petroso il deserto ch'egli scelse per trovarvi la sua rivelazione, laggiù sotto le montagne della Giudea, alla riva occidentale del Mar Morto: luogo di rupi e d'abissi, privo d'ogni vestigio, cieco d'ogni pensiero. Non temeva gli sciacalli famelici il giovine solitario ma temeva i pensieri. La sua mano scarna sapeva mansuefare le bestie selvagge; ma qualche pensiero, se ardente e dominatore come quelli che errano nel deserto laziale, lo avrebbe divorato. Quando l'angelo malo lo spinse alla vetta della montagna e gli additò le contrade fertili sottoposte e gli indicò la direzione dei varii regni del mondo e le correnti profonde e vorticose del desiderio umano, egli chiuse le palpebre: non volle vedere, non volle sapere. Ma il Rivelatore deve estendere oltre ogni limite l'orizzonte della sua coscienza abbracciando e i giorni e gli anni e i secoli e i millennii perchè la sua verità, emanante dalla somma della vita vissuta dagli uomini fino all'ora presente, sembri un foco in cui possano raccogliersi armonizzarsi e moltiplicarsi le energie ascensionali del più gran numero di generazioni per proseguire più dirittamente e più concordemente verso idealità sempre più pure.„

      Anche m'accompagnava talvolta il fantasma di colui che un giorno credette di aver creato il nuovo Re di Roma. “Mancò„ pensavo “mancò anche a questo sovrammirabile suscitatore di volontà eroiche e allegro vendemmiatore di sangue giovenile un esercizio ascetico sul sepolcro delle nazioni. S'egli avesse potuto per poco torcere il suo spirito dalle cose che l'incalzavano e inclinarlo verso le cose immobili, avrebbe forse scoperta un'idea più grande della sua persona mortale e l'avrebbe eletta regolatrice della sua gesta; e il suo latin sogno d'imperio si sarebbe addensato e fatto grave e tenace così che la forza degli eventi ed egli medesimo non avrebbero potuto dissiparlo e distruggerlo per sempre come fecero. Ma la sua idea, troppo legata alla sua vita cotidiana, troppo umana, doveva morire con lui. Egli non potè conoscere il segreto per cui l'uomo prolunga nel tempo l'efficacia dell'atto. Veementi quant'altri mai erano gli impulsi che partivano dall'uomo, ma breve e malcerto era il loro propagarsi perchè essi avevano origine in un centro di potenze spontanee non sottoposte a nessun concetto superiormente formato da un ordine severo di meditazioni. La sua opera non fu quindi superiore a lui stesso e non durò se non quanto può durare una strage. I vecchi oracoli regolarono il suo destino. Il responso pronunciato dalla Pitia intorno alle sorti di Corinto potè, dopo millennii, valere anche per lui: — Un'aquila ha concepito posando sopra una rupe; e partorirà un fierissimo leone, cupido di carne umana, e che opererà molta strage. — Egli non fece se non obbedire a questo fato, come il tirannello Cipselo. E il Re di Roma si dileguò come un filo di fumo, vanissimamente.„

      Di tal colore erano i pensieri che mi suscitava l'aspetto di un luogo il qual fu — secondo il verbo di Dante — dalla stessa natura disposto all'universale imperio: ad universaliter principandum. E, mentre mi tornavano alla memoria gli argomenti danteschi a dimostrare il buon diritto della dominazione romana, occupava la cima del mio intelletto quella sentenza che nella sua forma esatta e rigida i popoli latini, se volenterosi di rinascere, dovrebbero adottare a norma dei loro istituti di vita: — Maxime nobili, maxime præesse convenit; al massime nobile si conviene massime essere preposto.

      E io pensava, accompagnato dal grande e tirannico spirito: “O venerando padre di nostro eloquio, tu avevi fede nella necessità delle gerarchie e delle differenze tra gli uomini; tu credevi alla superiorità della virtù trasferita per ragione ereditaria nel sangue; fermamente credevi a una virtù di stirpe la qual potesse per gradi, d'elezione in elezione, elevar l'uomo al più alto splendore di sua bellezza morale. Esponendo la genealogia di Enea, tu vedesti nel “concorso del sangue„ una certa predestinazion divina. Ora, per qual misterioso concorso di sangui, da qual vasta esperienza di culture, in qual propizio accordo di circostanze sorgerà il nuovo Re di Roma? Natura ordinatus ad imperandum, dalla natura ordinato a imperare, ma dissimile ad ogni altro monarca, egli


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