Impressioni d'America. Giacosa Giuseppe

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Impressioni d'America - Giacosa Giuseppe


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ritorno a Roma fra due mesi.

      — Roma è la mia terra, mi dice.

      — E l'America?

      — Ho detto: terra. L'America è la mia patria. Sono americano anche in Roma. E dopo una pausa, sorridendo con intenzione: — specialmente a Roma.

      Due volte interrompe la conversazione per accorrere ai richiami di una vecchia monaca che egli segue con signorile deferenza. Viaggiano con noi dodici suore Clarisse, argomento di irriverenti motteggi a due artisti di canto «du Théâtre de l'Opéra» come appresi di poi dal manifestino di un concerto che diedero l'ultimo giorno del viaggio.

      Ci si avvicina ed intavola discorso un giovane signore, più inglese all'aspetto e al vestire, che nessun inglese della vecchia Inghilterra. È un parigino il quale viaggia per vini francesi di Bordeaux e di Champagne e per un certo suo Cognac che in fin di colazione l'avevo visto mescere allegramente a' suoi vicini di tavola. Allegramente s'intende della quantità, perchè egli non si diparte da una correttezza condiscendente ma piena di sussiego. Abborda, primo, la gente, ma coll'aria un po' stupida e seccata di chi risponda per cortesia ad una domanda importuna. Questa è la sua undecima traversata: egli conosce tutti i punti delle coste ed al largo, tutte le profondità oceaniche. A contrappeso dell'orologio, porta un barometro aneroide; verificato dall'osservatorio di Parigi. Il tempo è al Beau fixe. Peccato! Una burrasca a bordo dei vapori francesi è così divertente! Ha, ben inteso, il passo marino e possiede un ricchissimo assortimento di berretti marini per tutte le variazioni, anzi per tutte le gradazioni del tempo. È legittimo proprietario di due seggioloni ad X, uno di cuoio, l'altro di tela, col suo nome «Roger» trapunto in cuoio sull'uno, in seta sull'altro:

      — L'illustre Gandissart, mi mormora il prete.

      Una bellissima signorina, bella oltre ogni imagine di bellezza, a cui due more composero un lettuccio all'ombra di un canotto sospeso, guarda il mare con fissità vogliosa, sdegnosa dei viventi. Viaggia sola colla scorta delle due more che non la lasciano mai, sempre ritte ai piedi del lettuccio. Quando accenna, ma è cenno visibile ad esse soltanto, le more si curvano su di lei a raccogliere le «sorrise parolette brevi» che le escono dalle labbra semichiuse e ferme. È vestita di lana bianca, ma la veste non appare se non quando muove per scendere alla cabina: una cabina di lusso, col salottino dove essa desina sola. Finchè dura sul lettuccio è tutta coperta da una immensa pelliccia di astracan nero, lucente, che le more le rincalzano sotto i piedi. Non è malata, ha colori vivi e sani, il suo profondo languore non è che un attributo della sua bellezza.

      Il Gandissart la vede, l'ammira, non osa parlarle, ma corre al commissario per informazioni che, ad onore del commissario, riporta assai scarse: È la più bella persona di Messico.

       Abbiamo a bordo un'altra bellissima persona: un'ebrea di Boston, ma grata questa al Dio d'Israele degli stupendi occhi avutine in sorte, ne fa il migliore uso che per lei si possa, gratificandone il prossimo. Instancabile camminatrice, va e viene di continuo da un capo all'altro del bastimento, tirandosi dietro ora questo, ora quello ora parecchi, degli immancabili accompagnatori. Suo padre, seduto presso il castello di mezzo, la segue cogli occhi pieni di riconoscente ammirazione. Quando essa gli s'avvicina, per rifornirsi di confetti, egli l'accoglie con un How pretty you are darling! esclamato ad alta voce, con un accento che l'età sola rende paterno. Dicono che egli abbia fatto tesori trafficando nella Cina. Gli attribuiscono dieci milioni di dollari, ed ha quell'unica figliuola. Due giovani cubani bruni e fieri come gli eroi per canto e piano, fanno intorno alla ragazza una gelosa corte d'onore.

      Verso le dieci di sera, lontano a destra, nell'ombra nebbiosa, quasi a fior d'acqua, rosseggia il faro dell'isola Scilly, ultima terra d'Europa. La Bretagne ne saluta il semaforo, ma il comandante che discorre con me presso il suo casotto, il ponte è quasi deserto, cerca innanzi a noi nel gran gorgo, un'altra luce, che gli segnali La Champagne partita, or fanno otto giorni, da New-York.

       — Eccola. Aspettatemi qui; vado a scambiar due parole col mio collega e ritorno.

      Dal punto in cui mi trovo non posso leggere le parole luminose che si partono dalla nostra nave, ma noto le stelle mobili e diverse accese da lungi sulla invisibile giungente. Che dicono quei raggi alterni? Quelle voci silenziose balenate nella notte inducono nell'animo l'aspettazione inquieta di cose arcane. Così parlano negli spazî, i mondi. — Non si giudica che esse possano trasmettere notizie concrete traducibili in linguaggio concreto, ma piuttosto oroscopi augurali e sibillini ammonimenti.

      E l'oroscopo venne:

      — La Champagne segnala che si lascia dietro un grosso fortunale, mi dice al ritorno il comandante.

      — Un ciclone? domando io, sedotto dalla grossa parola, e curioso di leggergli in viso il peggio.

      — Oramai li chiamano tutti così e il nome non importa; ma quale sia per essere il tempo, tutto si riduce ad arrivare dieci ore prima o dieci ore dopo. Noi non temiamo che le nebbie, anzi col nostro peso e la nostra velocità non temiamo nemmeno quelle.

      E poi venne il concreto ammonimento.

      — Poichè non avete sentito la maretta di stassera, mettetevi in letto subito e fate di dormire. Se il ballo vi coglie nel sonno, è probabile che lo stomaco s'avvezzi ai sobbalzi e non vi dia noia domani.

      L'indomani a giorno, mi svegliarono la mia cappelliera, la valigia a mano ed un salvagente di sughero staccatosi dal gancio, che menavano insieme, ruzzolando per la cabina, un trescone indiavolato. Nell'andito accanto, rintronavano dei colpi d'ariete che pareva volessero sfondar le pareti. Erano grossi valigioni che slittavano ad ogni rullata. Balzo dalla cuccetta, dò di capo nel soffitto, aspiro un acuto odore d'acqua di Colonia (la boccia era caduta dalla tavoletta ed il liquido s'era tutto sparso), e mi vesto come posso. Ci siamo. Tuttavia mi reggo e non ho mal di capo, e come la campana chiama all'asciolvere, m'avvio brancolando per gli anditi verso la sala da pranzo, risoluto di mettermi alla prova. Ma una prima sorsata di the, avversa e minacciosa, mi rivolge in fretta alla cabina.

      — Monsieur, manges une pomme — mi suggerisce una pietosa cameriera, e mi porge una grossa mela carnosa che addento e mi ristora sull'attimo, onde ne registro qui la virtù sanatrice.

      Fu la burrasca equinoziale. Per cinque giorni, le grosse serrate di ferro ci imprigionarono sotto coperta. Per cinque giorni i trecento e nove commensali, si ridussero prima a quattordici, poi ad undici soli, compresi il comandante, il commissario ed il dottore. Per cinque giorni e cinque notti, dovetti disertare la mia cabina, tanta ridda vi facevano tutti gli oggetti sciolti e tanto dai sottili trammezzi di legno, risonavano i patimenti e i lagni dei malati. In tutto quello spazio di tempo, non venni mai a capo di vedere il campo disteso delle acque furenti. Gli occhi rotondi del salone a seconda del rullìo, ora si appuntavano al cielo oltre il limite dell'orizzonte, ed ora sprofondavano entro vortici verdastri. Della burrasca vidi soltanto e ricordo l'altezza iperbolica dei frangenti vicini, la lucentezza brunita dei valloni e certe ironiche lascivie dei fiocchetti di schiuma che orlano il sommo delle onde. Queste mi attraevano con malia irresistibile: stavo delle ore, la fronte appoggiata al vetro, affascinato dalle loro grazie diaboliche. Si affacciavano sui dorsi rompenti quasi a misurare l'ampiezza del solco, si gettavano a capofitto, scivolavano, sprofondavano, risorgevano, saltellanti come libellule, sulla cresta degli opposti marosi, sembravano frenetici di gioia a tanto spettacolo di furore e di morte. A volte mi pareva di sentirli ridere.

      Splendeva un sole invernale, nella dubbia serenità del cielo nordico, ma d'ogni intorno all'orizzonte era una corona di nebbie basse rasenti il mare. Quella cerchia nembosa passava di continuo nei vetri, ora salendo, ora scendendo, a ritmici intervalli. Di quando in quando mi giungevano all'orecchio come un'eco remota ed indistinta certi ritornelli di canzoni napoletane che mi parevano sorgere dagli abissi. Erano emigranti italiani che pigiati a poppa ingannavano col canto gli ozî ed il terrore della traversata. Tra i fischi, gli urli, le cannonate ed i muggiti della tempesta e tra il sinistro scricchiolare della nave, quei ritmi domestici dileguanti in cantilene lamentose, mi traevano l'animo già eccitato dalle apprensioni invano represse e derise e dalla invincibile insonnia, ad un intenerimento pieno di dolci e pungenti immagini famigliari. Giungevano nel gran salone della prima classe, lungo i fianchi della nave, o attraverso gli


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