Una Maestra D'Asilo Per Il Re. Shanae Johnson

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Una Maestra D'Asilo Per Il Re - Shanae Johnson


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Mio Dio, lei vive pericolosamente, signorina Pickett.»

      Con un altro profondo respiro attraverso il naso, Esme tenne la bocca chiusa e uscì dall’edificio. Tirò fuori il cellulare dalla tasca, e, prima ancora di aver girato l’angolo, scrisse a Jan di scaldarle una fetta del suo dolce preferito.

      Premette il tasto INVIA. Quando alzò lo sguardo, faticò a credere ai suoi occhi. C’era un drago in mezzo alla strada. E stava volando dritto verso di lei.

      Capitolo Tre

      Mentre guardava fuori dal finestrino della macchina, la città di New York scorreva davanti agli occhi di Leo in cemento grigio, denim blu e luci fluorescenti. Gli scorreva davanti era un modo di dire. Avrebbe potuto camminare più velocemente di quanto l’auto viaggiasse nel traffico. Quella strada trafficata era più simile a un parcheggio che a un percorso.

      «Mi dispiace che ci si metta così tanto, signori» disse l’autista.

      Si toccò il cappello mentre guardava Leo e Giles sul sedile posteriore. Il loro autista era originario di New York. Era sembrato deliziato quando aveva saputo che avrebbe portato in giro un re in carne e ossa. In effetti, aveva davvero ridacchiato come una scolaretta quando si era trovato faccia a faccia con Leo.

      «Si figuri, tutto a posto» gli disse Leo.

      «Ha detto che vuole andarsene da questo posto, Altezza?»

      Leo aveva viaggiato molto prima di salire al trono. Ai tempi della scuola, aveva trascorso molto tempo in Germania, dove aveva imparato a esprimersi in modo chiaro e coinciso. Dopo la scuola, aveva lavorato a lungo nelle missioni nell’Africa francofona, dove l’accento era molto marcato.

      Eccelleva nella comunicazione. Tranne che lì a New York, dove gli accenti, che sembravano degli scioglilingua, i doppi negativi e i significati capovolti di alcune parole spesso lo coglievano alla sprovvista. E viceversa, a quanto pareva.

      «No» disse Leo. «Voglio dire che il traffico non è colpa sua.»

      L’autista annuì. «Mi scusi. Il suo è un inglese da ricconi. Ho già abbastanza problemi a capire le persone del Jersey.»

      Leo rise a quella battuta. Nonostante i problemi di comunicazione, gli piaceva parlare con l’autista sin da quando era andato a prenderli all’aeroporto. Avrebbero potuto utilizzare il loro autista di Cordoba, ma l’ambasciata aveva detto che sarebbe stato meglio averne uno nativo di New York, quella settimana, quando i diplomatici di tutto il mondo avrebbero intasato le strade.

      Leo guardò quei nastri di asfalto. Cosa non avrebbe dato anche per un solo attimo di libertà! Un momento per scomparire tra la folla.

      «Perché non usciamo e ce la facciamo a piedi?» propose Leo.

      Giles sbuffò come se qualcosa di aspro e sgradevole si fosse fatto strada con gli artigli dal fondo della sua gola. «Siete un re. Un re non cammina. Soprattutto in una città straniera.»

      «Nessuno sa chi sono, qui. Potrei essere un uomo qualunque che passeggia per strada.»

      In quel momento Giles arricciò il naso come se avesse fiutato qualcosa di veramente disgustoso. «Appartenete a un lignaggio di grandi guerrieri e leader, i quali, secoli fa, avrebbero schiacciato ribelli come questi se avessero osato non essere d’accordo con il loro re. Siete tutt’altro che un uomo qualunque.»

      Leo azzardò un’occhiata nello specchietto retrovisore. «Senza offesa» disse all’autista.

      «Non mi offendo» rispose prontamente lui. «Non sono sicuro di aver capito bene tutto quello che ha detto.»

      Leo ridacchiò di nuovo, e poi il suo stomaco entrò in azione. «Quello che io so per certo è che sono affamato.»

      «Ha fatto colazione nella suite dell’hotel.» Giles non alzò nemmeno lo sguardo. Sfogliava le carte del suo dossier.

      «Ho di nuovo fame» si lamentò Leo, suonando simile alla sua bambina di cinque anni prima di andare a letto.

      «Naturalmente» disse Giles sottovoce ma abbastanza forte perché Leo potesse sentirlo. «Ci siamo quasi. Sono certo che ci sarà da mangiare in abbondanza.»

      Sebbene Leo indossasse la corona e sedesse su un trono, sentiva che la sua vita non era mai stata sua. Prima che fosse Giles a gestire i suoi programmi, erano stati i suoi genitori a pianificare ogni sua mossa. A volte si chiedeva se il castello immerso tra le nuvole dove risiedeva non fosse in realtà una gabbia dorata.

      Si rivolse di nuovo allo scenario di New York che aveva davanti. Quando la macchina svoltò in una strada laterale, ai suoi occhi apparve un castello. O qualcosa che si avvicinava a un castello. Invece delle torrette, la tenda parasole ricordava la crosta di una torta salata. L’insegna sopra la porta identificava il negozio come il Peppers’ Pies.

      Fuori dalla vetrina c’era un cartello che accoglieva i dignitari dei molti paesi presenti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si teneva a pochi isolati di distanza. L’auto si mosse abbastanza lentamente da permettere a Leo di leggere le offerte speciali del giorno. Nel menu c’erano torte di carne australiane, bundevara serbe e... possibile?

      «Accosta» disse Leo.

      «Vostra Maestà, non abbiamo tempo.»

      Leo rivolse uno sguardo al cruscotto. Avevano ancora un’ora intera prima del suo discorso. A Giles piaceva semplicemente essere estremamente in anticipo a tutti gli eventi per scongiurare ogni possibilità di catastrofe. Non ce n’era mai stata una.

      «Puoi riservare al tuo re un momento per soddisfare i suoi bisogni più elementari.»

      Giles sbuffò di nuovo ma cedette.

      L’autista si fermò e parcheggiò proprio davanti al negozio di torte. Non era esattamente un parcheggio regolare, ma la targa diplomatica offriva loro un minimo margine di manovra.

      Leo si allungò verso la maniglia della portiera, ma Giles lo batté sul tempo, saltò fuori dall’auto e si trovò dall’altra parte del veicolo prima che i piedi di Leo toccassero terra.

      «Non c’è bisogno che entriate e provochiate un gran trambusto» disse Giles. «Posso ordinare io per voi ciò che volete. Così potremo ripartire quanto prima.»

      La presenza di Leo per strada avrebbe potuto causare un po’ di confusione a Cordoba, dove la gente sapeva chi e cosa fosse. Ma lì, per le strade di New York, nessuno gli avrebbe rivolto nemmeno mezza occhiata. Tuttavia, Giles lo guardò male quando Leo scese dall’auto.

      «Sono sicuro che andrà tutto bene» disse Leo.

      «Mi permetta un po’ di scetticismo, Maestà» gli rispose Giles. «Cosa ne dice di aspettare vicino alla macchina?»

      «Va bene» disse Leo, e sbuffò a sua volta. Sarebbe stato fuori a respirare l’aria fresca e vagamente puzzolente per qualche istante.

      Con un altro sbuffo, Giles si voltò ed entrò.

      Leo volse lo sguardo e osservò la terra degli Uomini Liberi. Sollevò la testa verso il cielo. Con gli occhi alzati tra gli enormi edifici, si sentiva piccolo. Guardando in mezzo al mare di gente, si sentiva insignificante.

      Una persona lo sfiorò, urtandogli la spalla. «Attento!» gli urlò dietro quell’uomo.

      Leo non reagì a quell’affronto. Non aveva mai sperimentato la maleducazione in prima persona. Fu un’esperienza nuova, e scelse di riderci sopra. Il che non rese più felice la persona che si stava allontanando, che si accigliò e continuò a camminare.

      Alcune donne superarono Leo. Lo scrutarono dall’alto in basso. Gli sguardi che gli lanciarono da sopra le spalle andarono a segno. Avrebbe potuto approfittarne. Ma, ovviamente, non lo fece.

      A parte essere il padre di una bambina, Leo non era mai stato un tipo da una botta e via. A differenza di suo fratello. Per tutta la vita, Leo era stato un tipo da una donna sola. E poiché era stato fidanzato dalla nascita,


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