Strada senza uscita. Итальянский язык B1. Роберто Борзеллино

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Strada senza uscita. Итальянский язык B1 - Роберто Борзеллино


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quando fui soddisfatto ____ risultato, gli allegai la mia foto più recente, quella stessa foto scattata ___ Olga durante l’ultimo Natale. ____ momento stesso ___ cui decisi ___ premere il tasto «invio», come ___ un flash back, mi tornarono ______ mente gli anni ____ liceo.

      Упражнение 5. Впишите соответствующие наречия

      Esercizio 5: (Inserisci l’avverbio corretto!)

      Aggettivo Qualificativo / Avverbio di Modo

      1.dolce / dolcemente

      2.forte

      3.giusto

      4. rumoroso

      5.confuso

      6.allegro

      7.felice

      8 completo

      9.parziale

      10.silenzioso

      11.parziale

      12.sicuro

      Capitolo 2

      GLI ANNI DEL LICEO

      Ero un ragazzo di sedici anni che ogni giorno percorreva a piedi la strada per andare a scuola, cercando di evitare di passare per il centro. Spesso mi fermavo su di una panchina del lungomare di Salerno per ammirare i bellissimi promontori della costiera Amalfitana. A volte chiudevo gli occhi e accarezzato dal vento che trasportava la brezza mattutina restavo incantato ad ascoltare il canto dei gabbiani che, in cerca di cibo, si tuffavano voracemente nelle limpide e azzurre acque del mare.

      Arrivato all’entrata della scuola, mi fermai e mi sedetti su di un piccolo muretto. Quello era il mio posto preferito, quasi strategico, perché da lì potevo vedere l’intera scuola e controllare l’arrivo dei miei compagni. Ormai mancavano solo pochi minuti al suono della «campanella» che avvertiva tutti noi studenti dell’imminente chiusura del cancello d’entrata a scuola quando, all’improvviso, giunse al mio orecchio il suono di una dolce voce familiare: «Ehi Roberto, sono felice di vederti, allora ci siamo proprio tutti questa mattina?». Ero girato di spalle ma quella voce l’avrei riconosciuta tra mille altre. Mi voltai lentamente, cercando di incrociare subito il suo sguardo e fu proprio in quell’istante che la luce di due grandi occhi azzurri illuminò il mio viso, così come accade ad un faro nella notte buia. Era Marina, la mia compagna di classe, che sedeva nel banco in prima fila.

      Pensai tra me e me. «Perfetto, anche oggi Marina è venuta a scuola» ed immediatamente accennai ad un sorriso. Il mio sguardo si posò su quei lunghi capelli biondi, leggermente ondulati, che le cadevano perfettamente sulle spalle. Anche lei mi sorrise. Era incantevole come sempre e la sua bellezza, acqua e sapone, ogni volta mi apriva il cuore in due come un apriscatole. Sentivo le pulsazioni andare a mille, ma cercai di non incrociare lo sguardo dei suoi occhi. Infine, mi feci coraggio e provai a balbettare: «Ciao Marina, come va questa mattina, immagino che avrai studiato tutto il giorno, oppure ieri sera sei andata in giro a divertirti con le amiche?». Il mio primo desiderio fu quello di scoprire cosa avesse fatto il giorno prima. «Era stata impegnata sui libri di scuola oppure era uscita con qualche ragazzo, magari con qualcuno che conoscevo?».

      La gelosia mi torturava dentro ma, fortunatamente, lei rispose esattamente nel modo che avevo sperato. «Purtroppo ieri niente divertimenti ma solo tanto studio con Marta. Oggi ci sono così tante interrogazioni che non avevo certamente la testa per fare altro». Marina non fece in tempo a finire la frase che, come un falco cattura le sue prede, arrivò la sua amica Marta che la prese per un braccio e la portò via, lontana da me. Mi dispiacque molto perché avrei voluto trascorrere altro tempo con lei, ma ebbi appena il tempo di vederle allontanare insieme, abbracciate, perdersi in mezzo alla folla degli altri studenti che, nel frattempo, avevano riempito l’atrio della scuola.

      Proprio in quell’istante il rombo di una moto in lontananza catturò la mia attenzione: era il tipico suono di una Vespa 50 con la marmitta truccata. Finalmente era arrivato anche il mio caro amico Massimo. Da lontano potevo chiaramente distinguere la sua inconfondibile figura: aveva lunghi capelli neri da vero hippy inglese, gli occhiali da sole Ray-Ban e la classica sigaretta Marlboro tra i denti. Con Massimo eravamo diventati grandi amici fin dai primi giorni di scuola ed eravamo anche gli ideatori degli scherzi più divertenti fatti al malcapitato di turno, sia che questo fosse un semplice studente oppure il professore più cattivo. In quegli anni non guardavamo in faccia a nessuno pur di divertirci.

      Anche se abitavamo in città diverse e la lontananza ci costringeva a vederci troppo poco dopo la scuola, lo consideravo comunque un «vero amico», probabilmente all’epoca «il mio migliore amico». Era evidente a tutti che Massimo mi attraeva come una calamita: ero colpito dal suo modo di vestire, di parlare, di conquistare le ragazze, dei suoi modi anticonformisti. Con lui superavo tutta la mia timidezza. Lui era l’istrione del gruppo, sempre con il sorriso, la battuta pronta, mille idee originali nella testa. Lo vedevo come un gigante e, già allora, credendo nelle sue capacità artistiche, gli dicevo: «Massimo, tu un giorno diventerai un personaggio televisivo, un comico alla Valter Chiari, perché hai una comicità innata, sei un vero talento».

      Massimo parcheggiò la sua Vespa 50 all’interno del cortiletto della scuola, proprio in prossimità della finestra della nostra aula, in modo che, con una semplice occhiata, potesse tenerla sotto controllo. Si avvicinò a me, mi prese per un braccio e, letteralmente, mi spinse ad attraversare il portone della scuola. Fu sufficiente questa semplice azione per ritrovarmi già in aula. Poi Massimo, con una mossa già studiata da tempo, dopo aver «dato un ultimo tiro» alla sua Marlboro, aprì la finestra e, con un semplice schiocco delle dita, l’allontanò da sé oltre il piccolo prato. Nel frattempo avevo iniziato a guardarmi intorno e, con mio grande stupore, mi accorsi che nessuno dei miei compagni era seduto al proprio posto, come se fossero tutti in procinto di iniziare una ribellione, una rivoluzione.

      Si intuiva dai loro sguardi sorridenti che qualcosa di buono era successo e cercai di avvicinarmi alla cattedra del professore, lì dove si erano formati alcuni gruppetti di studenti che parlavano tra loro con voce insolitamente bassa. Fu tutto vano perché riuscii a distinguere solo tre parole: «Professore, malattia, supplente». Alla fine compresi il motivo di tanta allegra agitazione. Baglio, il nostro professore d’italiano, soprannominato «il professor terribile» a causa dei suoi modi poco gentili, quella mattina, sorprendentemente, era in ritardo: cosa molto inconsueta per lui perché non aveva mai saltato neppure una lezione durante i suoi vent’anni d’insegnamento.

      «Ma dov’è finito il professore d’italiano?», chiesi ad alta voce, cercando di attirare l’attenzione su di me. Ma nessuno dei miei compagni seppe rispondere in maniera sufficientemente concreta. Istintivamente rivolsi il mio sguardo alla prima fila, verso il banco centrale dove, finalmente, potevo ammirare Marina, stretta nel suo jeans bianco attillato che metteva in risalto le sue forme perfette. Era uno spettacolo per i miei occhi perché potevo vederla di schiena, appena appoggiata sul suo banco, in precario equilibrio, intenta a parlare con la sua amica del cuore Marta e con le altre due ragazze del gruppo: Viola e Anna. Speravo che il mio nome fosse ricorrente nei suoi discorsi e pregavo perché girasse la sua testa verso di me: solo un piccolo istante, tanto da poter godere di quel suo sguardo intenso e, magari, strapparle un sorriso. Qualche volta, quando ero assalito dalla noia di un’inutile lezione, mi distraevo osservando Marina intenta a tirare fuori dallo zaino i quaderni e i libri e, trattenendo il fiato, restavo in attesa del suo pezzo forte: il diario rosa. Marina era una classica sedicenne degli anni ’80. Da lontano la guardavo scorrere velocemente quelle pagine e soffermarsi sulle foto dei «Duran Duran», un gruppo musicale molto di moda a quei tempi. Quella pagina, sicuramente la più curata


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