Alla conquista di un impero. Emilio Salgari

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Alla conquista di un impero - Emilio Salgari


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aveva impugnate le pistole che aveva deposte sulla tavola e gliele aveva puntate verso il petto, dicendogli freddamente:

      – Se tu fare un solo passo, io fare bum e ucciderti. —

      Il trattore chiuse con fracasso la porta, mentre i kaltani ed i ragiaputra che erano accorsi anche dalle due sale, gridavano:

      – Non lasciamolo scappare! È un pazzo! Le guardie! Le guardie! —

      Yanez era scoppiato in una gran risata.

      – Per Giove! – esclamò. – Ecco come si può procurarci una cena gratuita presso un altissimo personaggio del rajah d’Assam. Me la offrirà, non ne dubito. E Sandokan? Ah! Se n’è andato: benissimo, ora possiamo riprendere il pasto. —

      Tranquillo ed impassibile, come un vero inglese, si era seduto dinanzi ad un’altra tavola sulla quale si trovava un’altra terrina di carri, mandando giù qualche cucchiaiata.

      Non era però giunto alla terza, quando la porta si riaprì con gran fracasso e sei soldati che avevano dei turbanti immensi, delle larghe casacche fiammanti, calzoni amplissimi e babbucce di pelle rossa, entrarono puntando sul portoghese le loro carabine.

      Erano sei pezzi d’uomini, alti come granatieri, e barbuti come briganti della montagna.

      – Arrenditi, – gli disse uno di loro che aveva piantata sul turbante una penna d’avvoltoio.

      – A chi? – chiese Yanez, senza cessare di mangiare.

      – Noi siamo le guardie del primo ministro del rajah.

      – Dove condurre me mylord?

      – Da S. E.

      – Io non avere paura di S. E. —

      Si rimise nella cintura le pistole, si alzò con tutta flemma, depose sul tavolo un gruzzoletto di rupie pel taverniere e s’avanzò verso le guardie, dicendo:

      – Mylord degnare S. E. di vedere me grande inglese.

      – Da’ le armi, mylord.

      – Io non dare mai mie pistole: essere regalo di graziosissima regina Vittoria mia amica, perché io essere grande mylord inglese.

      Io promettere non fare male a ministro. —

      Le sei guardie si interrogarono cogli sguardi, non sapendo se dovevano forzare quell’originale a consegnare le pistole; ma poi, temendo di commettere qualche grossa corbelleria, trattandosi di un inglese, lo invitarono senz’altro a seguirli presso il ministro.

      Nella vicina sala s’erano radunati tutti gli avventori, pronti a prestare man forte alle guardie del ministro.

      Vedendolo comparire, una salva d’imprecazioni lo accolse:

      – Fatelo impiccare!

      – Gettate dalla finestra l’inglese!

      – È un ladro!

      – È un furfante!

      – È una spia! —

      Yanez guardò intrepidamente quegli energumeni, che facevano gli spavaldi perché lo vedevano fra sei carabine e rispose alle loro invettive con una clamorosa risata.

      Uscite dalla trattoria, le guardie entrarono in un vicino portone e fecero salire al prigioniero una marmorea gradinata che era illuminata da un lanternone di metallo dorato, in forma di cupola.

      – Qui abitare ministro? – chiese Yanez.

      – Sì, mylord – gli rispose uno dei sei.

      – Io avere fretta cenare con lui. —

      Le guardie lo guardarono con stupore; ma non osarono dire nulla.

      Giunti sul pianerottolo lo introdussero in una bellissima sala, arredata con eleganza, con molti divanetti di seta fiorata, grandi tende di percallo azzurro e leggiadri mobili, leggerissimi ed incrostati d’avorio e di madreperla.

      Uno dei sei indiani s’appressò ad una lastra di bronzo sospesa sopra una porta e la percosse replicatamente con un martelletto di legno.

      Il suono non erasi ancora dileguato, quando la tenda fu alzata ed un uomo comparve, fissando subito i suoi occhi, più con curiosità che con stizza, su Yanez.

      – S. E. il primo ministro Kaksa Pharaum, – disse una delle guardie. – Saluta.

      – Aho! – fece Yanez, togliendosi il cappello e porgendo la destra, come per stringere la mano al potentissimo ministro.

      Kaksa Pharaum era un uomo sui cinquant’anni, piccolo, magro come un fakiro, colla pelle assai abbronzata, il naso adunco come il becco degli uccelli da preda, che si nascondeva in buona parte entro una foltissima barba che gli saliva fino quasi agli occhi.

      Aveva deposto il ricco costume di corte, perché indossava un semplice dootèe di seta gialla a ricami rossi che gli scendeva, come una veste da camera, fino alle babbucce di pelle rosso cupa.

      Quantunque avesse veduta la mano di Yanez, si guardò bene dal toccarla, anzi si trasse un po’ da parte, per far meglio capire a quello straniero che non desiderava accordargli nessuna confidenza.

      – Sei tu che hai provocato tanto chiasso nella trattoria? – chiese.

      – Essere stato io, – rispose Yanez.

      – Non sapevi che qui abita un ministro?

      – Io sapere una sola cosa: di avere molta fame e di vedere altri a manciare senza me.

      – E per quello hai fatto nascere una mezza rivoluzione e mi hai disturbato?

      – Quando tua Eccellenza avere voglia cenare tu manciare subito ed io no?

      – Io sono un ministro…

      – Ed io essere mylord John Moreland, grande pari Inghilterra, amico grande regina Vittoria imperatrice tutte Indie. —

      Udendo quelle parole, la fronte del ministro, poco prima corrugata, si rasserenò.

      – Tu sei un mylord?

      – Sì, Eccellenza.

      – E non l’hai detto al trattore?

      – Averlo cridato a tutti e nessuno volermi dare da manciare. Non fare così noi in Inghilterra. Dare da manciare anche a indù.

      – Sicché non hai potuto cenare, mylord?

      – Soli pochi bocconi. Io avere ancora molta fame, grandissima fame.

      Io scrivere stassera a viceré del Bengala non poter compiere mia difficile missione, perché assamesi non dare mylord da manciare.

      – Quale missione?

      – Io essere grande cacciatore tigri ed essere qui venuto per distruggere tutte male bestie che mangiano indù.

      – Sicché tu, mylord, sei venuto per rendere dei preziosi servigi. I nostri sudditi hanno avuto torto a trattarti male, però io rimedierò a tutto. Seguimi, mylord. —

      Fece cenno alle guardie di ritirarsi, rialzò la tenda ed introdusse Yanez in un grazioso gabinetto, illuminato da un globo di vetro opalino, sospeso sopra una tavola riccamente imbandita, con piatti e posate d’oro e d’argento, colmi di svariati manicaretti.

      – Stava appunto per cenare, – disse il ministro. – Mylord ti offro di tenermi compagnia, così ti compenserò della cattiva educazione e della malevolenza del trattore.

      – Io ringraziare Eccellenza e scrivere a mio amico viceré Bengala tua gentile accoglienza.

      – Te ne sarò grato. —

      Si sedettero e si misero a mangiare con invidiabile appetito, specialmente da parte di Yanez, scambiandosi di quando in quando qualche complimento.

      Il ministro spinse anzi la sua cortesia fino a far servire al suo convitato della vecchia birra inglese che, quantunque molto acida, Yanez si guardò bene dal non tracannare.

      Quand’ebbero terminato, il portoghese si rovesciò sulla comoda poltrona e fissati gli occhi in viso al ministro, gli disse a bruciapelo


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