Alla conquista di un impero. Emilio Salgari

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Alla conquista di un impero - Emilio Salgari


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nel nascondiglio, – proseguì Yanez volgendosi verso il conduttore. – Quattro uomini rimangano qui fuori a guardia.

      Possiamo essere stati seguiti. —

      Prese sotto braccio Sandokan, riattizzò la sigaretta e varcarono la soglia, inoltrandosi in un angusto corridoio, ingombro di rottami staccatisi dall’umida volta e che pareva s’addentrasse nelle viscere della colossale roccia.

      Dopo aver percorsi cinquanta o sessanta metri, preceduti dagli uomini che portavano le torce e seguìti dagli altri, giungevano ad una immensa sala sotterranea, scavata nel vivo masso, di forma circolare, nel cui centro s’ergevano, sopra una pietra rettangolare, di dimensioni enormi, le tre dee: Parvati, Latscimi e Sarassuadi, la prima, protettrice delle armi siccome dea della distruzione; la seconda, delle vetture, dei battelli e degli animali quale dea della ricchezza; la terza, dei libri e degl’istrumenti musicali come dea delle lingue e dell’armonia.

      – Fermatevi qui, – disse Yanez a coloro che lo accompagnavano. – Tenete pronte le carabine: non si sa mai quello che può succedere. —

      Prese una torcia e seguìto sempre da Sandokan entrò in un secondo corridoio, un po’ più stretto del primo e lo percorse finché fu giunto in una stanza, pure sotterranea, ammobigliata sontuosamente e illuminata da una bellissima lampada dorata che reggeva un globo di vetro giallastro.

      Le pareti ed il pavimento erano coperti da fitte tappezzerie del Guzerate, scintillanti d’oro e rappresentanti per lo più belve strane, solo esistite nella fervida fantasia degli indù e all’intorno vi erano comodi e larghi divani di seta e mensolette di metallo sorreggenti dei fiaschi dorati e delle coppe.

      Nel mezzo, una tavola con incrostazioni di madreperla e di scagliette di tartaruga che formavano dei bellissimi disegni, con intorno parecchie sedie di bambù.

      Solo una parte della parete era scoperta, essendovi incastrato, in una vasta nicchia, un pastore colla faccia nera: era Quiscena, il distruttore dei re malvagi e crudeli, che formavano l’infelicità del popolo indiano.

      Il ministro era stato deposto su uno di quei soffici divani e russava beatamente come se si trovasse nel suo letto.

      – È tempo di svegliarlo, – disse Yanez, gettando la sigaretta e prendendo da una mensola un fiasco dal collo lunghissimo, il cui vetro rosso era racchiuso da una specie di rete di metallo dorato. – Noi abbiamo pratica di veleni e d’antidoti, è vero, Sandokan?

      – Non saremmo stati tanti anni laggiù, nel regno degli upas, – rispose il pirata. – Gli hai fatto fumare dell’oppio?

      – Ben nascosto sotto la foglia del sigaro, – disse Yanez. – Lo avevo coperto così bene da sfidare l’occhio più sospettoso.

      – Due gocce di quel liquido in un bicchiere d’acqua basteranno per farlo saltare in piedi. Il suo cervello non tarderà molto a snebbiarsi.

      – Vediamo, – disse il portoghese. Empì un bicchiere d’acqua preso da una bottiglia di cristallo che si trovava sulla tavola e vi lasciò cadere due gocce d’un liquido rossastro.

      L’acqua spumeggiò, prendendo una tinta sanguigna, poi a poco a poco riacquistò la solita limpidezza.

      – Aprigli la bocca, Sandokan, – disse allora il portoghese.

      Il pirata s’avvicinò al ministro tenendo in mano un pugnale e colla punta lo sforzò ad aprire i denti, che erano fortemente chiusi.

      – Presto, – disse Sandokan.

      Yanez versò nella bocca di Kaksa Pharaum il contenuto del bicchiere.

      – Fra cinque minuti, – disse la Tigre della Malesia.

      – Allora puoi accendere la tua pipa.

      – Credo che sia meglio. —

      Il pirata prese da una mensola una splendida pipa adorna di perle lungo la canna, la riempì di tabacco, l’accese e si sdraiò su uno dei divani, come un pascià turco, mettendosi a fumare con studiata lunghezza.

      Yanez, curvo sul ministro, lo scrutava attentamente. Il respiro, poco prima affannoso dell’indiano a poco a poco diventava regolare e le sue palpebre subivano di quando in quando una specie di tremito, come se facessero degli sforzi per alzarsi.

      Anche le gambe e le braccia perdevano la loro rigidità: i muscoli, sotto la misteriosa influenza di quel liquido, si allentavano.

      Ad un tratto, un sospiro più lungo sfuggì dalle labbra del ministro, poi quasi subito gli occhi s’aprirono, fissandosi su Yanez.

      – Amate troppo il riposo, Eccellenza, – disse Yanez ironicamente. – Come fanno i vostri servi a svegliarvi? Vi ho fatto fare un viaggio che è durato più di un’ora e non avete cessato un sol momento di russare.

      Non servite troppo bene il vostro signore.

      – Per… Mylord! – esclamò il ministro, alzandosi di colpo e girando intorno uno sguardo meravigliato.

      – Sì, io, mylord.

      – Ma… dove sono io?

      – In casa di mylord. —

      Il ministro stette un momento silenzioso, continuando a girare gli occhi intorno, poi esclamò:

      – Per Siva! Io non ho mai veduto questo salotto.

      – Sfido io! – rispose Yanez, colla sua solita flemma beffarda. – Non vi siete mai degnato di visitare il palazzo di mylord.

      – E quell’uomo chi è? – chiese Pharaum, indicando Sandokan, che continuava a fumare placidamente come se la cosa non lo riguardasse affatto.

      – Ah! Quello, Eccellenza, è un uomo terribile, che fu chiamato per la sua ferocia, la Tigre della Malesia.

      È un gran principe ed un grande guerriero. —

      Kaksa Pharaum non poté nascondere un tremito.

      – Non abbiate paura di lui, però, – disse Yanez, che si era accorto dello spavento del ministro. – Quando fuma è più dolce d’un fanciullo.

      – E che cosa fa qui, in casa vostra?

      – Viene a tenere qualche volta compagnia a mylord.

      – Voi vi burlate di me! – gridò Kaksa, furibondo. – Basta! Avete scherzato abbastanza! Vi siete dimenticato che io sono possente quanto il rajah dell’Assam? Voi pagherete caro questo giuoco!

      Ditemi dove sono e perché mi trovo qui, invece di essere nel mio palazzo o io…

      – Potete gridare finché vorrete, Eccellenza, nessuno udrà la vostra voce. Siamo in un sotterraneo che non trasmette al di fuori alcun rumore.

      D’altronde, rassicuratevi: io non voglio farvi male alcuno se non vi ostinerete a rimanere muto.

      – Che cosa volete da me? Parlate, mylord.

      – Lasciate prima che vi dica, Eccellenza, che ogni resistenza da parte vostra sarebbe assolutamente inutile, perché a dieci passi da noi vi sono trenta uomini che nemmeno un intero reggimento di cipay sarebbe capace d’arrestare.

      Accomodatevi ed ascoltate pazientemente una pagina di storia del vostro paese.

      – Da voi?

      – Da me, Eccellenza. —

      Lo spinse dolcemente verso una sedia, costringendolo a sedersi, prese alcune tazze di cristallo finissimo ed un fiasco, riempiendole d’un liquore color dell’oro vecchio, poi aprì il portasigari, offrendolo al prigioniero.

      Nel vedere i grossi manilla, Kaksa Pharaum fece un gesto di terrore.

      – Potete scegliere senza timore, – disse Yanez. – Questi non contengono nemmeno una particella d’oppio.

      Se avete qualche sospetto, prendete una sigaretta, a vostra scelta. —

      Il ministro fece un feroce gesto di diniego.

      – Allora assaggiate questo liquore, – continuò Yanez. – Guardate: ne bevo anch’io. È eccellente.

      – Più


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