I misteri della jungla nera. Emilio Salgari

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I misteri della jungla nera - Emilio Salgari


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o io spengo quell’uomo.

      – Ah! maledetti!…

      – Giura!

      – Ebbene!… – esclamò l’infelice con voce spenta.– Io… io giuro… che non amerò… più quell’uomo.

      Emise un urlo disperato, straziante, si portò le mani al cuore e cadde priva di sensi sulle stuoie. L’indiano ruppe in uno scroscio di risa.

      – Tu hai giurato che non l’amerai, – diss’egli con satanica gioia, raccogliendo il pugnale che la giovanetta aveva lasciato cadere. – Ma io non ho giurato che quell’uomo uscirà vivo di qui. Sorridi, eccelsa divinità e gioisci: questa notte ti offriremo una nuova vittima!

      Accostò alle labbra uno zuffolo d’oro e cavò un acuto fischio.

      Un indiano, col laccio stretto attorno ai fianchi ed il pugnale in mano entrò, inginocchiandosi dinanzi a Suyodhana.

      – Figlio delle sacre acque del Gange, eccomi, diss’egli.

      – Karna, – disse Suyodhana, – porta via la vergine della pagoda e veglia su di lei.

      – Conta su di me, figlio delle sacre acque del Gange.

      – Quella vergine tenterà forse di suicidarsi, ma tu glielo impedirai, giacché la nostra divinità non ha per ora che costei. Se muore, morrai tu pure.

      – Lo impedirò.

      – Radunerai poscia una cinquantina dei più fanatici e li disporrai intorno alla pagoda. L’uomo non deve sfuggirci.

      – V’è un uomo nella pagoda?

      – Sì, Tremal-Naik, il cacciatore di serpenti della jungla nera. Va ed a mezzanotte sii qui.

      L’indiano afferrò la povera Ada fra le braccia ed uscì. Suyodhana, o meglio il figlio delle sacre acque del Gange, aspettò che ogni rumore di passi fosse cessato, poi s’inginocchiò dinanzi alla vaschetta di marmo, nella quale guizzava il pesciolino dorato.

      – Padre mio, – diss’egli.

      Il pesciolino che nuotava in fondo al bacino, a quella voce venne a galla.

      – Padre mio, – proseguì l’indiano. – Un uomo, un miserabile, ha alzato gli occhi sulla vergine della pagoda. Quest’uomo è in mano nostra; vuoi che viva o che muoia?

      Il pesciolino si sprofondò nuotando con vivacità. Suyodhana si alzò di scatto: un sinistro lampo balenò nei suoi sguardi.

      – La dea l’ha condannato, – diss’egli con voce cupa… – Quell’uomo morrà!

      Tremal-Naik, rimasto solo, s’era lasciato cadere ai piedi della statua comprimendosi fortemente il cuore che battevagli furiosamente, come se volesse uscirgli dal petto. Giammai un’emozione simile aveva scosso le sue fibre; giammai aveva provato tanta gioia, nella solitaria e selvaggia sua vita fra le canne e le tigri.

      – Bella! bella! – esclamava egli, senza por mente che trovavasi nella pagoda maledetta e che forse cento orecchi l’ascoltavano. – Oh! sarai mia sposa, sì, vago fiore della jungla, dovessi mettere a ferro e a fuoco questa isola, dovessi da solo cozzare coi mostri che ti hanno condannato. Uscirò di qui, ritroverò i miei prodi compagni ed allora ti rapirò, ti salverò. Essi son forti, tu hai detto, essi sono terribili, ma io sarò più forte e più terribile e farò loro scontare a caro prezzo quelle lagrime che tu, infelice, hai sparso dinanzi a me. L’amore mi darà la forza di compiere tale impresa. – Si era alzato e si era messo a passeggiare, agitatissimo, colle pugna convulsivamente chiuse ed i lineamenti sconvolti da una rabbia concentrata.

      – Povera Ada! – ripigliò egli, con profonda tenerezza. – Qual destino mai pesa su di te? Perché tu non puoi amarmi? La morte troncherà la tua vita, hai detto, il giorno che tu dovessi diventar mia sposa; ma io l’arresterò questa morte, io la infrangerò colle mie proprie mani.

      Oh! svelerò sì, questo tremendo mistero e quel giorno tremino gli sciagurati che ti condannarono.

      Egli s’arrestò udendo le acute note del ramsinga.

      – Maledetto istrumento! – esclamò. – Suona sempre!

      Rabbrividì al pensiero che gli attraversò il cervello.

      – Questa tromba annuncia una sventura, – mormorò. – Che m’abbiano scoperto o che abbiano ucciso Kammamuri?

      Rattenne il respiro tendendo gli orecchi. Il suo fine udito raccolse un brusìo di voci, che sembravano venire dal di fuori.

      – Cosa vuol dir ciò? Al di fuori v’è della gente. Che sieno gli indiani, gli abitanti di questi funebri luoghi?

      Si guardò intorno con superstizioso terrore, ma era affatto solo, guardò l’apertura della pagoda, ma era affatto libera.

      – Qualche cosa sta per succedere, lo sento, disse a voce bassa, – ma mostrerò chi sia Tremal-Naik, quando si batte.

      Esaminò le cariche delle pistole e della carabina, temendo forse che una mano misteriosa le avesse levate; esaminò persino la lama del suo fedele pugnale, tinto più di cento volte nel sangue dei serpenti e delle tigri, e s’accoccolò dietro alla mostruosa statua, rimpicciolendosi più che gli era possibile.

      La giornata passò con una lentezza spaventevole per l’indiano, condannato ad una immobilità quasi assoluta e ad un digiuno forzato.

      Le ombre della notte a poco a poco invero i più oscuri recessi della pagoda, poi s’alzarono gradatamente verso la cupola: alle nove l’oscurità era così profonda, da non vederci ad un passo di distanza, quantunque la luna brillasse in cielo, riflettendosi sulla grande palla di bronzo dorato e sul serpente dalla testa di donna.

      Il ramsinga non aveva più fatto udire le sue funebri note ed il brusìo era da lunga pezza cessato. Un silenzio misterioso regnava dappertutto.

      Tremal-Naik tuttavia non ardiva muoversi; il solo movimento che facesse, era quello di appoggiare l’orecchio sulle fredde pietre della pagoda e di ascoltare con profonda attenzione.

      Una voce segreta gli diceva di vegliare e di diffidare e ben presto si accorse che quella voce non mentiva, poiché verso le undici, quando più fitte erano le tenebre, un rumore strano, non ancor definibile, giunse fino a lui.

      Pareva che qualche cosa scendesse dall’alto, seguendo la corda che sosteneva la lampada. Tremal-Naik per quanto aguzzasse gli occhi non fu però capace di distinguere ciò che fosse. Per ogni precauzione impugnò le pistole e silenziosamente s’alzò, ponendosi in ginocchio.

      – Che può esser mai? – si chiese egli. – Ada, no poiché mezzanotte è ancor lontana. Che sieno quei terribili uomini?

      Una vampa d’ira gli salì in volto.– Sfortuna a colui che qui entra!

      Un tintinnìo metallico risuonò fra le tenebre. Era la lampada che si agitava, scossa senza dubbio da colui che scendeva dall’alto. Tremal-Naik non si trattenne più.

      – Chi è là? – gridò egli.

      Nessuno rispose alla domanda, anzi il tintinnìo cessò.

      – Che mi sia ingannato? – si domandò egli.

      Si alzò e guardò in aria. Lassù, sulla cupola, la luna continuava a riflettersi sulla palla dorata e scorgevasi una parte della fune vegetale che sosteneva la lampada, ma nessuno essere umano v’era appeso.

      – È strano, – disse Tremal-Naik, diventato inquieto.

      Tornò a rannicchiarsi continuando a guardarsi d’intorno. Passarono altri venti minuti, poi la lampada tornò a tintinnare.

      – Chi è là? – ripete egli con voce stridula. – Se v’è qualcuno si faccia innanzi, che Tremal-Naik lo attende.

      Nuovo silenzio. Allora s’aggrappò ai piedi della gigantesca statua, salì sulle braccia, si elevò fino a posare i piedi sulla testa ed afferrò la lampada scuotendola furiosamente. Uno scroscio di risa risuonò nella pagoda.

      – Ah,


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