I misteri della jungla nera. Emilio Salgari

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I misteri della jungla nera - Emilio Salgari


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colpo d’archibugio rintronò destando tutti gli echi della jungla, poi un secondo ed infine un terzo. Tremal-Naik, sfuggito miracolosamente ai proiettili, s’era rivoltato ruggendo come le belve che egli cacciava nella jungla.

      – Ah! miserabili! – urlò egli furente.

      S’era strappato di dosso la carabina e l’aveva puntata contro gli assalitori che venivano innanzi coi pugnali fra i denti e i lacci in mano, pronti a strangolarlo.

      Dalla canna usci una striscia di fuoco seguita da una detonazione. Un indiano cacciò un urlo terribile, portò le mani al volto e rotolò fra le erbe.

      Tremal-Naik ripigliò la sfrenata corsa saltando a destra e a sinistra onde impedire ai nemici di prenderlo di mira.

      Attraversò un gruppo di bambù che abbatté furiosamente e si cacciò in mezzo alla fitta jungla, facendo perdere le traccie agli inseguitori.

      Corse così per un quarto d’ora; si arrestò un momento a prendere fiato sull’orlo della piantagione, poi si slanciò come un pazzo in mezzo a terreni paludosi e scoperti, solcati da innumerevoli canaletti d’acque stagnanti. Aveva gli occhi iniettati di sangue e la spuma alle labbra, ma correva sempre come avesse le ali ai piedi, saltando via gli ostacoli che gli sbarravano la via, tuffandosi nei pantani, immergendosi negli stagni o nei canali, non avendo che un solo pensiero: frapporre fra sé e gli assalitori il maggior spazio possibile.

      Quanto corse, non lo poté sapere. Quando si arrestò, egli si trovava a un duecento passi da una superba pagoda, che ergevasi isolata sulla riva di un ampio stagno contornato da colossali ruine.

      V. La vergine della pagoda

      Quella pagoda, del più puro stile indiano, era la più bella che Tremal-Naik avesse veduto nelle Sunderbunds. Costruita tutta in granito bigio era alta più che sessanta piedi, con una base larga quanto due terzi dell’altezza, contornata da stupendi colonnati, scolpiti con quella valentìa che distingue la razza indiana. Man mano che la pagoda saliva, andava a poco a poco restringendosi sino a terminare in una specie di cupola sormontata da una gigantesca palla di metallo, con una punta assai aguzza sostenente il misterioso serpente colla testa di donna.

      Agli angoli della pagoda scorgevansi il Trimurti indiano, figurato da tre teste sopra un solo corpo sostenuto da tre gambe e, qua e colà, una moltitudine di sculture strane, curiose, rappresentanti molte figure della storia sacra degl’indiani, Brahma, Siva, Visnù, Parvadi, la sinistra dea della morte seduta sopra un leone, Darma-Ragia, il Plutone degl’indiani e molte altre divinità, nonché un gran numero di mostri spaventevoli e di teste d’elefanti colle proboscidi tese.

      Tremal-Naik, come si disse, si era fermato di colpo, sorpreso di trovarsi dinanzi ad una pagoda, là dove credeva di trovare la selvaggia jungla.

      – Una pagoda! – aveva esclamato egli. – Sono perduto!

      Gettò un rapido sguardo all’intorno. Egli si trovava in una specie di radura d’una estensione di oltre mezzo miglio, sgombra affatto d’ogni cespuglio e d’ogni bambù.

      – Sono perduto! – ripeté egli, con ira.– Se non trovo un nascondiglio, fra cinque minuti mi pioveranno addosso quei terribili uomini e mi strangoleranno.

      Ebbe per un istante l’idea di ritornare indietro e di riguadagnare la jungla per nascondersi, ma vi erano più di ottocento metri da percorrere, cioè il tempo sufficiente perché gli inseguitori lo scoprissero. Pensò alle ruine che contornavano lo stagno, ma non presentavano nascondigli di sorta.

      – E se salissi lassù, – mormorò egli, guardando la sommità della pagoda. – E perché no?…

      Un uomo come lui, rotto ad ogni sorta d’esercizi e che possedeva una forza erculea congiunta ad un’agilità straordinaria da muovere ad invidia una scimmia guenù, era capace di issarsi fino alla cupola aggrappandosi ai colonnati ed alle sculture che collegavansi in modo da formare un›erta e bizzarra gradinata.

      Si slanciò verso la pagoda, dopo d’aver disarmato la carabina e di aversela gettata dietro le spalle, stette qualche istante ad udire, e rassicurato del profondo silenzio che colà regnava, imprese l’ardita scalata.

      Con una rapidità sorprendente salì su una colonna e di là si slanciò sulle pareti del tempio aggrappandosi alle gambe delle divinità, inerpicandosi sui loro corpi, posando i piedi sulle loro teste, afferrandosi alle proboscidi degli elefanti e alle corna dei buoi del dio Siva.

      Cosa strana, incomprensibile, misteriosa: man mano che saliva sentivasi il cuore battere precipitosamente, le membra acquistare una forza straordinaria. Egli sentivasi come attirato da una forza irresistibile verso la sommità della pagoda, ed al contatto di quelle fredde pietre provava delle sensazioni sconosciute, inesplicabili.

      Potevano essere le due del mattino, quando, dopo d’avere eseguito venti manovre aeree da far gelare il sangue ad un ginnasta e di aver corso altrettante volte il pericolo di capitombolar giù e di sfracellarsi il cranio, giunse alla cupola. Con un ultimo slancio s’aggrappò alla gigantesca palla di metallo, sormontata dalla punta sostenente il serpente colla testa di donna.

      Con sua sorpresa egli si trovò ondeggiante al di sopra di una larga apertura, profonda ed oscura quanto un pozzo, attraversata da una sbarra di bronzo sulla quale trovò modo di appoggiare i piedi.

      – Dove sono? – si chiese egli. – Questo pozzo, senza dubbio deve menare nell’interno della pagoda.

      Abbandonò la grande palla e s’aggrappò alla sbarra guardando giù, ma non vide che tenebre; tese l’orecchio, ma il più profondo silenzio regnava sotto di lui, segno evidente che nessuno trovavasi nella pagoda. Una cosa che lo colpì fu una corda abbastanza grossa, formata d’un vegetale lucente e flessibilissimo, annodata alla sbarra e che scompariva giù nell’apertura. L’afferrò e riunendo le sue forze la tirò a sé; s’accorse subito che alla estremità v’era attaccato un corpo alquanto pesante il quale, alla trazione, ondeggiò tintinnando.

      Deve essere una lampada, – disse Tremal-Naik. Ad un tratto si batté la fronte.

      – Ora mi ricordo! – esclamò egli con viva emozione. – Sì… quei due uomini parlavano di una pagoda… di una vergine che veglia… Giusto Visnù, sarebbe mai…

      S’arrestò e portò ambo le mani al cuore che batteva con veemenza straordinaria. Egli provava allora un’emozione analoga a quella che sentiva in quelle sere che trovavasi dinanzi alla strana visione.

      Fu un lampo. S’aggrappò a quella corda e si mise a scendere nelle tenebre, quantunque ignorasse ancora dove andasse a finire e ciò che lo attendeva laggiù. Pochi minuti dopo i suoi piedi battevano su di un oggetto arrotondato, il quale mandò un suono metallico che gli echi del tempio ripeterono più volte.

      Stava per curvarsi per vedere cos’era, quando un cigolìo simile a quello di una porta che gira sui cardini, giunse ai suoi orecchi.

      Guardò sotto di sé e gli parve di scorgere, fra le tenebre, un’ombra che muovevasi, ma senza produrre rumore di sorta.– Chi può esser mai? – si chiese egli, rabbrividendo.

      Con una mano estrasse una pistola e l’impugnò deciso di vendere caramente la vita, se veniva scoperto, e attese coll’immobilità d’una statua di granito.

      Un sospiro profondo salì fino a lui; quel sospiro lo impressionò in un modo nuovo, misterioso. Gli sembrò che gli avessero vibrato una pugnalata in cuore.

      – Sono pazzo o stregato, – mormorò egli.

      L’ombra si era fermata dinanzi ad una massa nera, enorme che trovavasi proprio al disotto della fune.

      – Eccomi, orribile divinità! – esclamò una voce di donna che scosse Tremal-Naik fino al fondo dell’anima.

      Tremal-Naik al colmo della sorpresa udì una materia liquida precipitare sul suolo e sentì spandersi per l’aria un profumo soave.

      – Mostruosa gente! – pensò egli. – Eppure quell’ombra ha una voce dolce come le note del saranguy… È strana! tremo come se avessi la febbre. Perché?…

      – Ti


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