La città del re lebbroso. Emilio Salgari

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La città del re lebbroso - Emilio Salgari


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fiammeggianti si sfasciarono e l’intera massa crollò con un fracasso spaventevole, formando un immenso braciere alto parecchi metri.

      Il corpo del S’hen-mheng, sepolto sotto quell’ammasso di tronchi già carbonizzati, si inceneriva rapidamente.

      «È finita,» disse il dottore. «Possiamo andarcene, generale.»

      Lakon-tay, che era più commosso di quanto sembrasse, si era già alzato, quando un paggio del re lo accostò, sussurrandogli all’orecchio:

      «Sua Maestà vi aspetta nel suo palazzo.»

      «Il re mi chiama!» esclamò il generale. «Sono un uomo finito.»

      «Voi non sapete ancora che cosa desidera,» disse il dottore, quantunque in fondo all’animo condividesse le angosce del disgraziato generale.

      «Non sarà certo per mantenermi in carica o per annunciarmi la cattura di qualche altro elefante,» rispose Lakon-tay con voce triste. «Il meglio che mi possa toccare sarà l’esilio in qualche lontana provincia.»

      L’europeo diventò pallido e il suo pensiero corse a Len-Pra, a quella deliziosa fanciulla che già tante volte aveva ammirato sulla veranda della phe e per la quale già da tempo nutriva, quasi senza saperlo, una profonda affezione.

      «Ebbene,» diss’egli con voce risoluta dopo un breve silenzio, «vi seguirò anche nell’esilio. Guarire degli ammalati qui od altrove, per me fa lo stesso.»

      «Mi seguirete nell’esilio?» chiese il generale, con stupore.

      «Sì,» rispose l’italiano, «e voglio lavorare alla vostra riabilitazione. No, un prode a cui lo stato deve la salvezza della patria, non deve cadere sotto i colpi dei nemici.»

      Lakon-tay, profondamente commosso, strinse la mano del bravo giovane.

      «Ah! Questi europei!» mormorò. «Quanta nobiltà d’animo posseggono, mentre qui non vivono che l’intrigo e la vigliaccheria!»

      Il rogo stava per estinguersi e il re si era ritirato colla sua corte, rientrando nella cinta dell’immenso palazzo reale. Fare attendere quel potente monarca era troppo pericoloso.

      «Andiamo,» disse Lakon-tay, con voce risoluta. «Mi aspetterete davanti alla porta, è vero, dottore?»

      «Non vi lascerò solo,» rispose l’italiano. «Ormai ho unito la mia sorte alla vostra.»

      Scesero dalla loggia, che a poco a poco si era vuotata, e si diressero verso la porta d’occidente che s’apriva sulla vasta piazza e che era guardata da una compagnia d’arcieri della guardia reale, vestiti di seta rossa, con ampi calzoni alla turca e coi cappelli a forma di piramide.

      Con grande sorpresa di Lakon-tay, le guardie gli presentarono le armi e fecero squillare i pi. Ciò era di buon augurio, poiché se la sua disgrazia fosse stata ormai decretata, nessun onore gli sarebbe stato più reso.

      Un po’ incoraggiato da quell’accoglienza, fece cenno al dottore di attenderlo ed entrò nel vasto cortile d’onore, alla cui estremità s’apriva il salone delle udienze.

      Quando salì la gradinata, vide Phra-Bard passeggiare con una certa agitazione fra le splendide colonne che reggevano il soffitto di mosaico d’oro, ancora vestito di seta grigia, colla corta scimitarra appesa alla fascia.

      Il viso del monarca non si era ancora rasserenato, anzi profonde rughe solcavano la sua fronte ed un brutto lampo illuminava i suoi occhi nerissimi e leggermente obliqui.

      Vedendo Lakon-tay si arrestò di colpo, fissando sul generale uno sguardo acuto come la punta d’uno spillo.

      «Eccomi, maestà,» disse il generale, dopo essersi inchinato fino a terra.

      «Tu hai combattuto anche alle frontiere cambogiane, contro gli Stienghi, è vero?» gli chiese il monarca senza rispondere al suo saluto.

      «Sì, maestà, e mercé la protezione di Sommona Kodom, anche quella volta ho salvato il regno da una invasione,» rispose Lakon-tay, con voce tranquilla.

      «Tu allora, che sei rimasto in quei paesi lungo tempo, devi conoscere una leggenda.»

      «Quale, maestà?»

      «Hai mai udito parlare del driving-hook di Sommona Kodom?»

      Lakon-tay guardò il re con una certa sorpresa, chiedendosi che cosa potesse significare quella strana domanda, poi rispose:

      «Sì, ne ho udito parlare.»

      «Sai dove sarebbe stato sepolto?»

      «In una pagoda d’una vecchia città, a quanto mi hanno narrato.»

      «Che sorge presso il lago misterioso di Tuli-Sap.»

      «Così mi hanno detto.»

      «Ebbene, sappi ora che Sommona Kodom, interrogato dai talapoini, ha fatto comprendere che senza quel driving-hook più nessun elefante bianco si farà vedere né catturare.

      L’uncino di cui si serviva il mahut, quando Sommona era incarnato in un elefante, è necessario per evitare le spaventevoli calamità che presto o tardi piomberanno sul regno non più protetto da alcun S’hen-mheng.

      Vuoi la tua riabilitazione ed il mio perdono, e vuoi evitare a tua figlia la schiavitù? Va’ a trovarmelo.»

      «Ma, maestà… se non esistesse?»

      «Sommona ha parlato ai talapoini. Oseresti mettere in dubbio le parole del dio?» chiese il re con collera. «Sono trecent’anni che si parla di quel driving-hook

      «Potrò io scoprirlo?»

      «Questo è affar tuo: ti concedo tre giorni per fare i tuoi preparativi. Va’, Lakon-tay: ti ho dato il mezzo per riabilitarti.»

      Capitolo VII. La spia

      Il dottor Roberto Galeno, figlio d’un celebre medico che aveva fatto la sua fortuna alla corte del Kedivè d’Egitto e poi a quella del marajah di Mysore, aveva ereditato dal padre una intensa passione per la vita avventurosa.

      Laureatosi appena ventenne, primo fra tutti i suoi compagni, all’università di Padova, dopo un paio d’anni di pratica in quell’ospedale, aveva dato un addio alla città natia, disgustato anche dall’oppressione straniera, e si era imbarcato a Venezia sul primo veliero in partenza per le Indie.

      Ricchissimo, abilissimo e munito anche di lettere di raccomandazione per i rajah e i marajah dell’India, quattro mesi dopo salutava con gioia le torbide acque del sacro Gange e le immense canne delle prime jungle.

      Dopo aver percorso l’India misteriosa, dal capo Comorin alle immense catene dell’Himalaja, aveva fissato la sua residenza nel Mysore, dove già suo padre aveva lasciato tanti graditi ricordi e dove il suo nome era ricordato con una specie di venerazione.

      Spirito però irrequieto, non vi si era fermato a lungo e, dopo un anno, aveva ripreso le sue peregrinazioni visitando le grandi isole del mare della Sonda, ora operando e guarendo, ora cacciando piccoli e grossi animali ed ora studiando quei popoli così interessanti. A venticinque anni, un po’ stanco di quella vita randagia, desideroso di riposarsi alcuni mesi, era sbarcato a Bangkok, l’opulenta capitale del Siam, la piccola Venezia dell’oriente.

      Voleva conoscere anche i Siamesi, prima di tornarsene definitivamente in Europa, e possibilmente anche i Cambogiani, popolo in quell’epoca non più conosciuto di quello dayacho che abita le impenetrabili foreste del Borneo.

      La pittoresca città, col suo magnifico fiume, le sue alte pagode dalle cupole dorate sfolgoranti al sole, aveva subito conquistato l’anima del medico… ed egli si era fermato più del previsto, affittando una graziosa palazzina che si trovava, come abbiamo veduto, di fronte alla phe del generale.

      Conoscitore profondo di tutte le malattie che travagliano e decimano le popolazioni orientali, non aveva tardato a formarsi una numerosa clientela, specialmente fra i ricchi della città e anche fra i grandi della corte, che credevano più alla scienza d’un europeo, uomo stimato soprattutto nel Siam e nella Birmania, che ai ciarlatani del paese.

      Per


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