La città del re lebbroso. Emilio Salgari

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La città del re lebbroso - Emilio Salgari


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dimenticato Mien-Ming?»

      «Ah… Il puram Cambogiano!…»

      «Quell’uomo sarebbe capace di tutto, anche di approfittare della mia assenza per rapirmi Len.»

      «Guardate,» disse Roberto, che pareva avesse preso una improvvisa risoluzione. «Se vi facessi la proposta di accompagnarvi? Fareste acquisto, oltre che d’un medico, d’un buon fucile e d’un discreto cacciatore.»

      Lakon-tay, con una mossa improvvisa strinse le mani del dottore.

      «Voi, seguirmi! Voi condividere i pericoli d’un così lungo viaggio fra le selvagge tribù del settentrione?»

      «Se non vi sono d’incomodo!…»

      «Ah!… Grazie, dottore, grazie! Uomini come voi non si rifiutano. Un europeo in questo paese vale meglio d’una compagnia di soldati del re.»

      «Quando partiremo?»

      «Domani, dopo il mezzodì, vi ho detto.»

      «Chi verrà con noi?»

      «Feng, che è uno Stiengo; io l’ho raccolto sei anni or sono, quasi morente, su un campo di battaglia, e l’ho curato colle mie mani, ed egli è d’una fedeltà a tutta prova. Ci sarà prezioso quando avremo raggiunto le foreste del settentrione.»

      «Fino a dove rimonteremo il Menam?»

      «Fino ad Ajuthia, dove incroceremo e risaliremo, finché sarà possibile, il Nam-Sak. Venite a cenare, dottore. Tracceremo meglio il nostro itinerario.»

      Si erano già alzati, quando verso la stessa finestra di prima udirono degli scricchiolii, come se altri rami si spezzassero, poi un fruscio di foglie e infine un colpo sordo. Si sarebbe detto che un corpo umano si fosse lasciato cadere nel giardino.

      Lakon-tay si precipitò nuovamente verso la finestra, tenendo in mano una pistola dalla canna lunghissima ed arabescata, che aveva preso da una mensola.

      «Ci spiavano!» gridò.

      Il dottore lo aveva seguito, infilando le mani nell’alta fascia di seta rossa che portava sotto la giacca di flanella bianca, e nella quale teneva forse qualche arma.

      La luna cominciava allora ad apparire sulle cime delle foreste circondanti la città, ma fra le aiole e nei viali del giardino non si scorgeva alcun essere umano.

      «Eppure qualcuno o qualcosa è caduto,» disse Lakon-tay, con inquietudine.

      «Che qualche scimmia sia entrata nel vostro giardino e si sia arrampicata fin qui?» chiese il dottore. «Ne ho veduto parecchie nei giardini confinanti col vostro.»

      «Può darsi,» rispose il generale, facendo un gesto di dubbio. «Manderò Feng e qualche altro servo a visitare il giardino. Andiamo a cenare, dottore: è già tardi.»

      Capitolo VIII. L’agguato

      Si erano appena ritirati, quando un’ombra umana si alzò in mezzo ad una folta aiola di peonie di Cina, scivolando rapidamente verso la cancellata che cingeva il giardino.

      Era un uomo quasi interamente nudo, non avendo che un cortissimo sottanino stretto ai fianchi; la sua pelle, assai bruna, luccicava come se fosse stata unta recentemente con olio di cocco.

      Sospeso ad una sottile cintura, portava uno di quei coltellacci dalla lama larga e dalla punta quadra usati dai Birmani e dai Cambogiani, arma terribile, che d’un sol colpo tronca la testa sia ad un uomo che ad una belva.

      Quell’individuo, che pareva dotato di un’agilità straordinaria, si inoltrò tenendosi sotto l’ombra proiettata dagli alberi, che crescevano numerosi nel giardino, raggiunse la cancellata, vi si inerpicò scavalcando le punte senza ferirsi e con un rapido volteggio si lasciò cadere sulla riva del Menam.

      Aveva appena eseguito quella manovra, quando vide una torcia apparire all’estremità del giardino.

      «Se tardavo un po’, mi prendevano,» mormorò. «Ora inseguitemi, se ne siete capaci. Kopom ha i garretti solidi e sfida i cervi.»

      Si slanciò a corsa sfrenata, tenendosi curvo verso terra e seguendo la riva del fiume, che in quel luogo era ombreggiata da una doppia fila di alberi di cocco, dalle immense foglie piumate.

      Continuò a correre per una decina di minuti, poi, quando si credette sufficientemente lontano dalla palazzina del generale, accostò alle labbra un piccolo pi, traendone alcune note stridenti e acutissime.

      Dopo alcuni istanti, verso la riva opposta, si udì rullare un tong, poi una barca lunghissima, stretta, colla prua alta e affilata, montata da alcuni uomini, se ne staccò, scivolando silenziosamente sulle acque del maestoso fiume.

      Non aveva alcuna lanterna di carta oliata a bordo, né alcuna doratura sui fianchi. Era una di quelle lunghe canoe scavate col ferro e col fuoco nel tronco d’un albero gigantesco, adorna sul davanti di una testa di drago e guidata da una pagaia di dimensioni straordinarie che serviva da timone.

      Otto paia di remi la spingevano rapidissimamente, essendo i Siamesi battellieri insuperabili.

      In dieci minuti attraversò il fiume, che in quel luogo era larghissimo, e approdò dinanzi a una capanna semidiroccata, che un tempo doveva aver servito d’asilo a qualche pescatore.

      Un uomo solo, corpulento, le spalle avvolte in una larga sciarpa di seta nera che gli nascondeva parte del viso, scese sulla riva.

      Era Mien-Ming, il possente puram segreto del re.

      «Sei riuscito?» chiese a Kopom che gli era mosso incontro.

      «Sì, mio signore,» rispose il Cambogiano.

      «Hai udito tutto?»

      «Tutto, ma per poco non sono stato sorpreso; le piante che coprono la facciata della phe per due volte hanno ceduto sotto il mio peso, e sono sfuggito alla morte per un vero miracolo, giacché il generale si era armato d’una pistola.»

      «E non t’ha scorto?»

      «No, perché mi sono tenuto fermo contro il muro, ammassando sopra di me le foglie. Se in quel momento un altro ramo si fosse spezzato, non so se sarei qui a raccontarti l’esito della mia pericolosa impresa.»

      «Che cos’hai udito?» chiese il puram con vivacità.

      «Partono domani, dopo il mezzodì.»

      «Chi partono?»

      «Il generale e anche Len-Pra.»

      Una rauca bestemmia sfuggì dalle labbra contratte del puram.

      «Anche Len-Pra, hai detto?» chiese con voce sibilante. «Ne sei certo?»

      «Ti dirò anche, signore, che la conduce con sé per impedire a te di rapirla.»

      Il puram era diventato pallido.

      «Che sospetti di me?»

      «Non lo so, padrone.»

      «Anche per la morte dei S’hen-mheng

      «Di ciò non ha parlato.»

      «Ma teme che io approfitti della sua assenza per rapirgliela?»

      «Sì, padrone.»

      Il puram fece un gesto di furore.

      «Avrò dunque inventato la storia del sogno inutilmente?» esclamò, digrignando i denti e camminando come una belva feroce lungo la riva del fiume. «Ah! Conduce con sé Len-Pra! La vuole esporre ai pericoli di quel lungo viaggio per impedirmi di rapirgliela! La portasse anche in Cina, Mien-Ming non rinuncerà ai suoi progetti.

      Quella fanciulla mi ha stregato e bisogna che diventi mia, dovessi scatenare una rivoluzione nel Siam e ucciderle il padre.

      Non mi conosci ancora, Lakon-tay, e non sai di che cosa sono capace io! Hai osato rifiutare la mano di Len a me, puram, l’uomo più potente e più temuto del regno dopo Phra-Bard? Imbecille! Me la pagherai cara!»

      Dopo quello sfogo violento, Mien-Ming tornò verso il Cambogiano, che non aveva lasciato il suo posto.

      «Hai


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