La tigre della Malesia. Emilio Salgari

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La tigre della Malesia - Emilio Salgari


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due prahos con una scossa furono allontanati dalle paludose rive, nel mentre una terza palla fischiava fra gli alberi troncandone i rami. Le vele terzarolate per non avere impicci sul ponte vennero tese al vento. I due legni, senza rispondere alle provocazioni nemiche per riserbarsi i colpi a buona portata, si spinsero in mezzo al fiumicello portandosi sull’altra riva la cui ombra delle grandi piante bastava per sottrarli agli occhi più acuti.

      Si trattava di sbucare improvvisamente in mare e di muovere arditamente all’abbordaggio, ancor prima che il nemico pensasse alla ritirata. Possedendo la macchina nel ventre, era lui il padrone che poteva portarsi da un luogo all’altro, evitare un incontro che fosse pericoloso e battere in breccia colle sue artiglierie assai più potenti di quelle dei pirati. Sandokan aveva di già calcolato sui numerosi vantaggi di lui e cercava sventarli giuocando d’astuzia.

      – Non abbiamo fretta – diss’egli a Patau che si teneva alla barra. – Cerchiamo di risparmiare i nostri uomini che sono contati, non esponiamo troppo i nostri legni al fuoco dell’assalitore che ha potenti cannoni: lo abborderemo questa notte, se occorre. Non lasciamolo sfuggire giacché il leone si è gettato dinanzi alla tigre.

      L’incrociatore avea preso posto a seicento metri dalla costa e si teneva sotto macchina senza gettare il più piccolo ancorotto onde tenersi completamente libero nei suoi movimenti, assalire o retrocedere, determinato a scovare i pirati a colpi di cannone. Il suo pezzo di prua, senza dubbio un grosso cannone, tuonava ogni cinque minuti cangiando direzione, tirando a caso, non giungendo a scorgere i due legni che, semi nascosti e nel più profondo silenzio, scendevano lenti lenti la corrente aspettando l’istante di correre all’abbordaggio.

      Tutti i pirati erano pronti a qualunque sacrificio, decisi di sbarazzare il loro mare da un nemico sì potente che finiva col diventare uno spauracchio anche pei più coraggiosi. Ognuno si giurava di farla finita una volta giunto sul ponte dell’incrociatore, scannare il nemico benché tre volte più numeroso o almeno farlo saltare colla Santa Barbara. Sandokan aveva dato gli ordini precisi, niuno li avrebbe cangiati; guerra avea promesso, guerra doveva essere. La vittoria sarebbe venuta dopo.

      I due prahos continuarono a scendere la corrente senza più inquietarsi delle detonazioni dell’incrociatore. Le palle fischiavano nei boschi abbattendo gli alberi, rimbalzando fino al fiume, forando più d’una volta le vele, ma non si rispondeva. Si voleva mordere la carne del leone.

      A venti metri dalla foce fu visto il legno nemico che continuava a tirare col solo pezzo di prua. Patau ad un segno del capitano si curvò sul cannone che pareva impaziente di ruggire.

      – Guarda! Guarda! – esclamò Sandokan volgendosi verso il prahos che veniva dopo.

      Una nube di fumo sfuggì dalla prua del legno da guerra seguita da una detonazione che si ripercosse sotto gli alberi della costa. La prua del prahos fu passata da un proiettile come fosse stata di cartone, facendo saltare le tavole del castello su cui poggiava il cannone. Il pezzo si rovesciò mentre una colonna d’acqua si precipitava fischiando nella stiva.

      – Quei cani là tirano a meraviglia! – esclamò un Daiasso, che si precipitò con tre o quattro altri compagni sotto coperta, dove l’acqua di già invadeva il paramezzale.

      – Se non ci sbrighiamo, la sarà finita prima di filare cento braccia – mormorò un Giavanese.

      – Silenzio! – gridò Sandokan facendo lampeggiare la lama della scimitarra.

      Il legno da guerra alla vista dei due prahos pirateschi aveva, dopo il colpo di cannone così fortunatamente riuscito, fatto un mezzo giro a tribordo dirigendo la prua verso il nemico, pel quale pareva avere un certo rispetto che poteva chiamarsi un po’ di paura, ad onta della sua mole e della sua potente artiglieria. Si udiva sul suo ponte rullare il tamburo e squillare la tromba come in un giorno di battaglia, uomini che comandavano e lo sbuffar della macchina che vomitava torrenti di fumo dalla ciminiera ristretta in mezzo ai quali scintillavano delle scorie.

      Da ogni parte si vedevano artiglieri in posizione dietro i loro pezzi col cordone tira-fuoco in mano pronti a bombardare il nemico con turbini di ferro, soldati dalle giacche rosse visibili a grandi distanze e che offrivano un sicuro bersaglio e marinai armati di carabine issati sulle coffe, sui pennoni, sulle sartie, sulle griselle che gesticolavano vivamente impazienti di cominciare il loro formidabile fuoco di moschetteria.

      Sandokan a tutti quei preparativi, a tutte quelle mosse del legno da guerra che si teneva sotto vapore per battere in ritirata dinanzi a trentasette uomini, si era messo a ridere. Quell’uomo singolare trovava che tutti quei preparativi erano ancor pochi dinanzi a lui, cui il nome sol bastava a triplicare le forze dei suoi pirati.

      – Eh! – esclamò egli rizzandosi quanto era lungo. – Non scherziamo di troppo, figli miei, che il leone ha aperte le sue unghie. Orsù, tigrotti miei, mano ai remi e a tutta velocità all’arrembaggio senza risparmiare, fra mezzo, qualche moschettata. Una volta sul ponte, sangue e cadaveri!

      – Sangue! Sangue! – urlarono come un sol uomo i due equipaggi.

      – Ai remi! Ai remi! – comandò Patau sempre in posizione dietro al suo cannone, che andava accarezzando.

      Trenta uomini, trenta macchine dalle braccia d’acciaio, si precipitarono sotto coperta dei due prahos che si tenevano a una rispettabile distanza l’un dall’altro per non offrire una mira troppo facile al nemico. Due secondi dopo i legni corsari, guizzanti come pesci, rapidi come battelli a vapore, uscivano a tutta velocità in pieno mare abbandonando ogni precauzione, movendo dritti al legno da guerra che continuava a presentare la prua a meno di cento metri dalla costa.

      – Ah! – esclamò Sandokan quando vide la coperta del suo prahos quasi sgombra. – La danza sarà tremenda, ma si danzerà, se il birbante non si risolve a fuggire.

      Egli si avvicinò a prua, dove Patau e quattro compagni lo aspettavano dietro il pezzo. Esaminò per qualche istante il legno nemico che aveva sospeso il fuoco intento senza dubbio in qualche audace manovra, e volgendosi verso il Malese sempre impassibile:

      – Orsù, Patau, non abbiamo un istante da perdere. Seicento metri sono come seicento colpi di cannone, bastanti per fracassare le ali ai nostri legni. Colpo per colpo, occhio per occhio, dente per dente. Quando non avrai più occhio sicuro, cedi il posto e arresta la palla col petto!

      – Bene, capitano – rispose il Malese. – Or mi vedrete all’opera!

      Patau era uno dei migliori artiglieri che contasse la pirateria, un brav’uomo in fatto di colpi di cannone che sapeva dare alle palle una direzione infallibile che fracassavano sempre. Egli si curvò sul suo pezzo mirando il ponte dell’incrociatore, poi si rizzò colla miccia in mano.

      Ancor prima che Sandokan avesse dato il comando, un lampo balenò a prua dell’incrociatore seguito da una sorda detonazione. La maistra fu tagliata nettamente come un giunco e precipitò sul ponte coprendolo a metà colla sua vela e coi suoi pennoni, mentre l’altro prahos rispondeva fracassando il bompresso che volò in mare a meno di un piede dal cannone ancora fumante.

      – I nostri uomini cominciano bene! – disse Sandokan, traendosi di sotto le pieghe della vela. – Animo, Patau, rispondi alla provocazione! Fracassa loro qualche albero o fa saltare quel dannato cannone di prua.

      – Eccomi, capitano. Colpo per colpo! Occhio per occhio! – rispose il Malese.

      Avvicinò la miccia e dié fuoco. Il cannone s’infiammò ruggendo, vomitando ferro e fumo; il suo proiettile che si allontanava pochi metri sopra il livello del mare andò a schiantare la passerella del comandante con matematica precisione, mozzando nel medesimo colpo la ciminiera il cui fumo si sparse pel ponte soffocando i combattenti di babordo che dovettero abbandonare il posto.

      – Ehi, Patau! – esclamò Sandokan cacciando la barra a tribordo. – Non addormentarti sul pezzo; fracassa se puoi la macchina a quel leone, fa saltare il suo magazzino delle polveri, fa mordere alle tue palle i cannoni del nemico. Non vedi tu, che si addormenta ancora?

      Il vascello da guerra, colpito ripetutamente, pareva sorpreso di quel fuoco così matematicamente diretto. Il suo pezzo di prua non ruggì più, l’equipaggio si ritrasse dietro le murate precipitosamente,


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