La tigre della Malesia. Emilio Salgari

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La tigre della Malesia - Emilio Salgari


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la preda al varco o che qualche serpe si dondolasse da qualche ramo pronto ad avviluppare il primo venuto e stritolarlo tra le vischiose anella con una di quelle strette cui non resistono forze umane. Per mezz’ora quei due uomini proseguirono il difficile cammino senza scambiare una sola parola, poi Sandokan tornò ad arrestarsi facendo cenno al compagno di tacersi. Aveva udito lontano un abbaiar di cani che sembravano seguire qualche pesta di selvaggina e che andavano rapidamente avvicinandosi, ed a cui talvolta univasi uno squillo di tromba.

      – Vi sono degli uomini che cacciano – disse Sandokan dopo di avere ascoltato attentamente. – Si vede che questi dannati Inglesi non perdono tempo. Sono sicuro che cacciano le ultime tigri sfuggite alle armi degli indigeni; ovunque è distruzione dove passa l’avvelenato loro soffio.

      – Ma dove andiamo ? – chiese Patau che non comprendeva lo scopo della passeggiata.

      – Dove vuoi che andiamo, se non si va in cerca della Perla?

      – Ma questi uomini? Io credo che mostrarci sia pericoloso.

      – Potrebbe darsi, Patau. Ma a noi occorrono notizie per sapere dove si trova questa Perla e come vanno le faccende della colonia. Tiriamo innanzi. I due pirati, anziché battere prudentemente in ritirata, si riposero in cammino dirigendosi verso il luogo dove udivasi squillare la tromba e abbaiare i cani.

      A poco a poco gli alberi poco prima strettamente uniti, cominciarono diradarsi dando luogo a praticelli e a radure cespugliose in mezzo alle quali s’innalzavano gran numero di piante di pepe, che avviticchiandosi ai rami degli arenga e degli artocarpus, formavano grandi reti vegetali e festoni ricadenti, dove garrivano leggiadri uccelletti e svolazzavano battaglioni di lucertole volanti.

      I latrati dei cani si udivano allora tanto vicini che i due pirati, temendo essere scoperti, si nascosero dietro ad un aloé la base del cui tronco spariva fra gigantesche erbe.

      Quasi subito apparve un indigeno in calzoncini bianchi, tenendo a guinzaglio un grosso mastino che ringhiava fiutando la terra.

      – Ecco il mio uomo – disse Sandokan all’orecchio di Patau. – Non farti vedere, Malese mio; non all’armiamo questo stupido schiavo delle giacche rosse, questo schifoso rettile, questo miserabile più codardo di tutti i popoli della Malesia.

      Gettò al Malese la carabina e si cacciò fra i cespugli circostanti senza far rumore e in maniera di abbordare il selvaggio di fronte. Alla sua improvvisa comparsa il bracconiere si arrestò tra il sospettoso e lo spaventato.

      – Che vai cacciando, sulle mie terre? – domandò brutalmente Sandokan piantandosi dinanzi a lui e vibrando un potente calcio al mastino che gli abbaiava contro.

      – La tigre – rispose l’indigeno.

      – Chi è questo furfante che si permette di calpestare i miei campi?

      – Lord Haawen.

      – Ah! – fe’ Sandokan ghignando. – Una giacca rossa. La colonia comincia adunque ad avere certi signori che si permettono di cacciare sulle terre altrui?

      – Non sono di loro le terre? Gli antichi padroni sono morti.

      Sandokan tornò a sogghignare ma con quel sogghigno crudele che faceva rabbrividire e parve che volesse fulminare il selvaggio colla potenza dei suoi occhi.

      – Ah! – esclamò il pirata. – Tu rimpiangi adunque l’istante in cui l’Iris si mostrò su queste coste e che i tuoi accolsero danzando?

      – Forse.

      Sandokan si passò la mano sulla fronte e stette per qualche istante in silenzio come pensasse. Poi guardando fisso fisso il selvaggio:

      – Odimi bene, maledetto schiavo – gli disse. – Sai tu che la colonia fu condannata ad essere distrutta da un uomo potente, la cui sua comparsa basterebbe per incutere spavento?

      – No, stenterei d’altronde a crederlo.

      – Nemmeno se quest’uomo si chiamasse…

      Egli s’arrestò bruscamente mordendosi le labbra.

      – Chi?…

      – Silenzio – disse il pirata ponendosi un dito sulle labbra. – Silenzio! Dimmi ora, hai mai udito parlare della Perla di Labuan?

      – E chi, in Labuan, non ne avrebbe udito parlare?

      – Chi è?

      – Un genio benefico, che nulla ha di comune colle giubbe rosse.

      – La conosci tu, questa Perla?

      – Sì, l’ho veduta.

      – Dove abita?

      – A un miglio da questo luogo – rispose il selvaggio.

      – Potrei vederla io?

      – Sì, lo potreste.

      – Indicami il modo.

      – Basterà che vi nascondiate dietro qualche albero del parco. Tutte le mattine va a passeggiare al chiosco chinese.

      Una vampa inesplicabile salì in volto al pirata. Trasse un pugno d’oro e lo diede al selvaggio che lo guardò istupidito.

      – Grazie, amico – gli disse. – E ora va… va, e non volgerti più mai indietro.

      Il selvaggio se ne andò correndo. Sandokan aspettò che fosse abbastanza lontano da non vederlo più, poi ritornò presso il Malese che lo aspettava impazientemente.

      – Ebbene? – chiese Patau.

      – Tutto va bene, tigrotto – rispose Sandokan. – Domani vedremo la Perla.

      – E le giacche rosse?

      – Sono più forti di prima.

      – Ah! – esclamò il Malese sospirando. – I bei giorni sono finiti.

      – Crederesti tu che la Tigre avesse paura? Cento leoni sarebbero pochi per incatenare la gran Tigre. Ritorniamo, Malese.

      Sandokan raccolse la carabina e si diresse verso la costa seguito da Patau. Non avevano ancor percorso cento metri, che un colpo di cannone rombò verso l’alto mare.

      La Tigre della Malesia cacciò fuori un ruggito come di belva ferita, poi precipitossi verso la foresta agitando come un forsennato la carabina.

      – Vieni, Patau! Vieni! – gridò egli, facendo salti da tigre. – Vedo del sangue!

      I due pirati in cinque minuti attraversarono il lembo della foresta e giunsero al fiumicello. Nel medesimo tempo un secondo colpo di cannone rombò sul mare, e in mezzo a un denso fumo che volteggiava nell’aria assieme a scintille, fu veduto il fumante incrociatore che moveva a tutto vapore verso la costa, sbarrando la ritirata ai legni da preda!

      CAPITOLO IV. Pirati e Incrociatori

      Non vi era da ingannarsi sulla manovra dell’incrociatore che cominciava a scagliare i più grossi proiettili alla foce del fiume. Aveva fiutato la presenza dei prahos pirateschi, e, benché non potesse ancora averli visti, ne indovinava la posizione, perché le sue palle erano passate pochi pollici sopra le murate perdendosi nella piccola palude.

      Non vi era tempo da perdere se non si voleva farsi schiacciare ancor prima di poter agire; bisognava abbandonare il pericoloso posto dove vi era la probabilità di venir presi fra due fuochi da terra e da mare. Giacché la manovra era riuscita e l’incrociatore li aveva scoperti con rara sagacità, il meglio da farsi era quello di assalirlo. Vinti o vincitori bisognava guadagnare il largo.

      Sandokan e Patau in pochi istanti avevano guadagnato i prahos, dove si era ormai organizzata la difesa; i cannoni caricati, gli uomini sotto le armi: non si domandava che di abbordare il vapore malgrado la sua mole, i suoi uomini tre volte più numerosi e la colossale portata delle sue artiglierie.

      – Andiamo, figliuoli, salpate le âncore, issate le vele, impugnate le armi! – gridò il capitano. – Il miserabile che viene a sfidarci nei nostri nascondigli non può essere che un coraggioso. Ci aspetta.

      – Tanto meglio, si danzerà nel sangue – disse un Malese


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