Obiettivo Zero . Джек Марс
Читать онлайн книгу.nel nostro mestiere,” disse Cicero con tono malinconico. “Serve a dare una prospettiva in mezzo a un distacco spesso necessario. Io sono sposato con Phoebe da trentatré anni che Phoebe. Il mio lavoro mi ha portato per tutto il globo, ma al mio ritorno lei è sempre lì per me. Quando sono via, sento la sua mancanza, ma ne vale la pena; ogni volta che torno a casa è come se mi innamorassi di nuovo. Come si dice, la lontananza rafforza l’amore.”
Renault sorrise. “Non avrei mai pensato che un virologo potesse essere un romantico,” rifletté.
“Le due cose non si escludono a vicenda, ragazzo mio.” Il dottore si accigliò leggermente. “E tuttavia… non credo che sia Claudette a tormentare i tuoi pensieri. Sei un giovane uomo pensieroso, Renault. Più di una volta ti ho notato mentre fissavi la cima delle montagne, come se stessi cercando risposte.”
“Credo che abbia perso la sua vera vocazione, dottore,” disse Renault. “Avrebbe dovuto diventare sociologo.” Il sorriso gli svanì dalle labbra mentre aggiungeva: “In ogni caso ha ragione. Non ho accettato questo incarico solo per lavorare al suo fianco, ma anche perché mi sono dedicato a una causa… una causa fondata sulla fede. Tuttavia, mi spaventa pensare a cosa potrebbe portarmi questa fede.”
Cicero annuì comprensivo. “Come ho detto, il distacco spesso è necessario nel nostro mestiere. Dobbiamo imparare a essere spassionati.” Appoggiò una mano sulla spalla del giovane. “Fidati di un uomo che ormai ha una certa età. La fede è una motivazione importante, certo, ma a volte le emozioni hanno la tendenza a confondere il nostro giudizio e a offuscare le nostre menti.”
“Farò attenzione. Grazie, signore.” Renault gli lanciò un sorriso imbarazzato. “Cicero. Grazie.”
All’improvviso il walkie-talkie gracchiò invadente dal tavolo accanto a loro, spezzando il silenzio introspettivo sotto la tettoia.
“Dottor Cicero,” disse una voce femminile dall’accento irlandese. Era la dottoressa Bradlee, che chiamava dal sito dello scavo lì vicino. “Abbiamo scoperto qualcosa. Deve assolutamente vederlo. Porti la scatola. Passo.”
“Arriviamo subito,” rispose il dottore alla radio. “Passo.” Sorrise con aria paterna a Renault. “Sembra che dovremo muoverci prima del previsto. Faremmo meglio a prepararci.”
I due uomini appoggiarono le tazze ancora fumanti e si diressero in fretta verso la camera sterile in kevlar, entrando nella prima anticamera per indossare le tute anticontaminazione giallo acceso fornite dal World Health Organization. Prima fu il turno di guanti e stivali, sigillati attorno ai polsi e alle caviglie, poi toccò alla tuta che copriva tutto il corpo, e alle fine misero maschera e respiratore.
Si vestirono rapidamente ma in silenzio, quasi con reverenza, usando il breve interludio per una trasformazione fisica ma anche mentale, dalle chiacchiere casuali e piacevoli all’atteggiamento sobrio richiesto dal loro mestiere.
A Renault non piacevano le tute anticontaminazione. Rendevano i movimenti lenti e il lavoro fastidioso. Ma erano assolutamente necessarie per condurre la loro ricerca: individuare e confermare l’esistenza di uno degli organismi più pericolosi noti all’uomo.
Lui e Cicero uscirono dall’anticamera e si avviarono verso la riva del Kolyma, il lento fiume ghiacciato che scorreva a sud delle montagne virando leggermente verso est, fino a sfociare nel mare.
“La scatola,” esclamò poi Renault. “Vado a prenderla.” Corse indietro fino alla tettoia per recuperare il contenitore dei campioni, un cubo di acciaio inossidabile chiuso da quattro ganci e con il simbolo di rischio biologico stampato su ognuno dei lati. Tornò a passo svelto dal dottore, e i due ripresero la camminata frettolosa fino al siti dello scavo.
“Sai che cosa è successo poco lontano da qui, vero?” domandò Cicero nel cammino, attraverso la maschera.
“Sì.” Lui aveva letto il rapporto. Cinque mesi prima, un ragazzo di dodici anni di un villaggio locale si era ammalato subito dopo aver preso l’acqua dal Kolyma. All’inizio si era pensato che il fiume fosse contaminato, ma man mano che i sintomi si erano manifestati, era diventato tutto più chiaro. I ricercatori della WHO si erano mobilizzati non appena gli era giunta voce della malattia ed era stata aperta un’indagine.
Il ragazzo aveva contratto il vaiolo. Più nello specifico, era stato contagiato da un ceppo mai visto prima in età moderna.
Alla fine l’indagine li aveva portati alla carcassa di un caribù vicino alle rive del fiume. Dopo un’accurata analisi, l’ipotesi era stata confermata: il caribù era morto più di duecento anni prima e il suo corpo era diventato parte del permafrost. La malattia che lo aveva ucciso si era congelata con esso, ed era rimasta dormiente, fino a cinque mesi prima.
“È una semplice reazione a catena,” spiegò Cicero. “I ghiacciai si sciolgono e il livello dell’acqua del fiume e la temperatura si alzano. Ciò, a sua volta, scongela il permafrost. Chi sa quali malattie potrebbero essere in agguato sotto questo ghiaccio? Antichi ceppi mai visti prima… è del tutto possibile che alcuni risalgano a prima dell’avvento dell’uomo.” La tensione percettibile nella voce del dottore non era solo dovuta alla preoccupazione, ma anche a un tocco di eccitazione. Dopo tutto, era quello per cui viveva.
“Ho letto che nel 2016 hanno trovato dell’antrace in una fonte d’acqua, per via dello scioglimento di una calotta glaciale,” commentò Renault.
“È vero. Hanno chiamato me per quel caso. E anche per l’influenza spagnola che hanno trovato in Alaska.”
“Che cosa è successo al ragazzo?” domandò il giovane francese. “Il caso di vaiolo di cinque mesi fa.” Sapeva che il paziente, insieme ad altre quindici persone del suo villaggio, era stato messo in quarantena, ma a quel punto il rapporto si concludeva.
“È deceduto,” rispose Cicero. Non c’era emozione nella sua voce, ben diverso da quando aveva parlato di sua moglie, Phoebe. Dopo decenni passati a fare il suo lavoro, l’anziano medico aveva imparato la sottile arte del distacco. “Insieme ad altri quattro. Ma da questo abbiamo ricavato un vaccino adeguato, quindi non sono morti invano.”
“In ogni caso,” mormorò Renault, “è un peccato.”
A pochi passi dalla riva del fiume c’era il sito dello scavo, un’area della tundra di venti metri quadrati isolata da paletti metallici e nastro giallo brillante. Era il quarto sito che il team di ricerca aveva creato fino a quel momento nel corso dell’indagine.
Altri quattro ricercatori in tute anticontaminazione erano all’interno del quadrato isolato, tutti chini su un piccolo spiazzo d’erba vicino al suo centro. Uno di loro notò i due uomini in arrivo e gli si avvicinò.
Era la dottoressa Bradlee, un’archeologa in prestito dall’Università di Dublino. “Cicero,” disse, “abbiamo trovato qualcosa.”
“Che cos’è?” chiese lui, chinandosi per passare sotto il nastro giallo. Renault lo seguì.
“Un braccio.”
“Chiedo scusa?” esclamò Renault.
“Mostramelo,” disse Cicero.
La Bradlee li condusse fino allo spiazzo di permafrost disseppellito. Scavare nel permafrost, e farlo con così tanta precisione, non era un compito facile, Renault lo sapeva. Gli strati superiori di terra gelata di solito si scioglievano d’estate, ma quelli più profondi prendevano il nome dal fatto che erano permanentemente congelati nelle regioni polari. La fossa che Bradlee e la sua squadra avevano scavato era profonda quasi due metri e abbastanza ampia perché un uomo adulto potesse sdraiarvisi dentro.
Come una tomba, pensò cupo Renault.
E come aveva detto la donna, i resti congelati di un braccio umano parzialmente decomposto erano visibili in fondo al buco, contorti, quasi scheletrici, anneriti dal tempo e dalla terra.
“Mio Dio,” bisbigliò Cicero. “Sai cosa è questo, Renault?
“Un corpo?” ipotizzò lui. Almeno sperava che il braccio fosse attaccato ad altro.
Il dottore prese a spiegare in fretta, gesticolando con le mani. “Nel 1880, esisteva un piccolo