Olanda. Edmondo De Amicis
Читать онлайн книгу.chiacchieravano ad alta voce, un vecchietto col sigaro in bocca in un canto: non vidi altro. Quella era la prima chiesa protestante in cui mettevo il piede e confesso che mi fece un senso sgradevole, misto un po’ di tristezza e di scandalo. Confrontai quell’aspetto di chiesa devastata colle magnifiche cattedrali d’Italia e di Spagna, dove sulle pareti rischiarate d’una luce soave e misteriosa, a traverso le nuvole d’incenso, s’incontrano gli sguardi amorosi degli angioli e delle sante, che ci mostrano il cielo; dove si vedono tante immagini d’innocenza che rasserenano, tante immagini di dolore che aiutano a soffrire, che ispirano la rassegnazione, la pace, la dolcezza del perdono; dove il povero senza tetto e senza pane, respinto dalla porta del ricco, può pregare fra i marmi e gli ori, come in una reggia, nella quale non è disdegnato, fra uno splendore e una pompa che non lo umilia, che anzi onora e conforta la sua miseria; quelle cattedrali, in fine, dove c’inginocchiammo da fanciulli accanto a nostra madre, e sentimmo per la prima volta una dolce sicurezza di riviver un giorno con lei in quei profondi spazi azzurri che vedevamo dipinti nelle cupole sospese sul nostro capo. Confrontando quella chiesa con queste cattedrali, mi accorsi ch’ero assai più cattolico che non credessi, e sentii la verità di quelle parole del Castelar:—Ebbene, sì, sono razionalista: ma se un giorno dovessi tornare in seno ad una religione, tornerei a quella splendida dei miei padri, e non a codesta religione squallida e nuda, che rattrista i miei occhi e il mio cuore!
Dall’alto della torre si vede con un colpo d’occhio tutta la città di Rotterdam coi suoi piccoli tetti rossi ed acuti, i suoi larghi canali, i suoi bastimenti sparpagliati fra le case, e tutt’intorno alla città, una pianura sconfinata e verdissima, percorsa da canali fiancheggiati d’alberi, sparsa di mulini a vento, di villaggi nascosti in mezzo a mucchi di verzura, che non mostrano che la punta dei loro campanili. In quel momento il cielo era sereno, si vedevano luccicare le acque della Mosa dalle vicinanze di Bois-le-Duc fino quasi alla sua foce; si scorgevano i campanili di Dordrecht, di Leida, di Delft, dell’Aja, di Gouda; ma da nessuna parte, nè vicino nè lontano, una collina, un rialto di terra, una curva che interrompesse la linea diritta rigidissima dell’orizzonte. Era come un mare verde ed immobile, sul quale i campanili rappresentavano alberi di bastimenti ancorati. L’occhio spaziava su quell’immenso piano quasi riposandosi, ed io provavo per la prima volta quel sentimento indefinibile che ispira la campagna olandese, che non è tristezza, nè piacere, nè noia, ma un misto di tutte e tre queste cose, che ci tien là molto tempo immobili, senza saper che cosa si guarda e a che cosa si pensa.
Tutt’a un tratto fui scosso da una musica bizzarra che non capii subito di dove venisse. Erano campane che suonavano un’arietta allegra con note argentine, le quali ora scoccavano lente che pareva si staccassero a fatica l’una dall’altra, ora prorompevano in gruppi, in fioriture strane, in trilli, in scoppi sonori; una musica saltellante e piena di ghiribizzi, che aveva qualcosa di primitivo come la città variopinta, sulla quale si spandevan le sue note a guisa d’uno stormo d’uccelli; e anzi consuonava così al carattere della città, che pareva la sua voce naturale, un’eco della vita antica di quella gente, che faceva pensare al mare, alla solitudine, alle capanne, e nello stesso tempo destava il riso e toccava il cuore. All’improvviso la musica cessò e sonarono le ore. In quello stesso punto altri campanili lanciavano nell’aria altre ariette delle quali mi arrivavano appena all’orecchio le note più acute, e finite le ariette, suonavan le ore come il primo. Questo concerto aereo, come seppi poi, e me ne fu spiegato il meccanismo, si ripete ad ogni ora del giorno e della notte, in tutti i campanili dell’Olanda; e sono arie di canzoni nazionali, di salmi, d’opere italiane e tedesche. Così in Olanda l’ora canta, come per distrarre la mente dal pensiero triste del tempo che fugge, e canta la patria, la religione e l’amore, con un’armonia che sorvola a tutti i rumori della terra.
Ora, per continuare a dire per ordine quello che vidi e quello che feci, devo condurre chi legge in un caffè e pregarlo d’assistere al mio primo desinare olandese.
Gli Olandesi mangiano molto. Il maggior piacere che si pigli da loro, come dice il cardinale Bentivoglio, è fra i conviti e le tavole. Ma non sono golosi, son voraci; tirano alla quantità più che alla qualità. Fin dai tempi antichi, erano canzonati dai loro vicini, non soltanto per la ruvidezza dei loro costumi, ma per la semplicità del loro nutrimento: si chiamavano mangiatori di latte e di formaggio. Mangiano generalmente cinque volte al giorno. Di levata, tè, caffè, latte, pane, cacio, burro; poco prima di mezzogiorno una buona colezione; prima di pranzo, quello che si direbbe uno spuntino, cioè un bicchier di liquore e qualche biscotto; poi un gran pranzo; e la sera tardi il pusigno, per usare la parola propria, ossia qualche cosuccia, tanto per non andare a letto collo stomaco ozioso. Mangiano poi in comune in molte occasioni non parlo di nascite e di matrimoni, che è uso di tutti i paesi; ma, per esempio, di sepolture: usando che gli amici e i conoscenti che hanno accompagnato il convoglio funebre, riconducano la famiglia del defunto a casa, e là siano invitati a mangiare e a bere, e facciano per solito molto onore ai loro ospiti. La pittura olandese, quando non ci fosse altra testimonianza, è là per provarci la parte principalissima che ebbe sempre la tavola nella vita di quel popolo. Oltre gl’infiniti quadri di soggetti casalinghi, nei quali si direbbe che il piatto e la bottiglia sono i protagonisti, quasi tutti i grandi quadri che rappresentano personaggi storici, borgomastri, guardie civiche, li mostrano seduti a tavola in atto di mordere, di tagliare, di mescere. Persino il loro eroe, Guglielmo il Taciturno, l’incarnazione della nuova Olanda, incarnò pure quest’amor nazionale della tavola, ed ebbe il primo cuoco dei suoi tempi; un così grande artista che i principi tedeschi mandavano dei principianti a perfezionarsi alla sua scuola, e Filippo II, in uno di quei periodi d’apparente riconciliazione col suo mortale nemico, glielo chiese in regalo.
Ma, come dissi, il carattere principale della cucina olandese è l’abbondanza, non la raffinatezza. I Francesi, che sono buongustai, ci trovano molto a ridire. Mi ricordo d’uno scrittore di certe Mémoires sur la Hollande, che inveisce con impeto lirico contro il mangiare degli Olandesi, dicendo:—Cos’è questo mangiar zuppe alla birra? questo mescolar carne e confetti? questo divorar tanta carne senza pane?—Altri scrittori di libri sull’Olanda hanno parlato dei loro desinari in quel paese, come di sventure domestiche. È superfluo il dire che son tutte esagerazioni. Alla cucina olandese si può abituare in poco tempo anche una bocca ultradelicata. Il fondo del desinare è sempre un piatto di carne, col quale si servono altri quattro o cinque piatti di salumi e di legumi, che ognuno mescola e combina a modo suo col piatto principale. Le carni sono squisite e i legumi squisitissimi, e cucinati in mille maniere diverse: degni di menzione particolare la patate e i cavoli, e ammirabile l’arte di far le frittate. Non parlo della caccia, dei pesci, dei latticini, del burro, perchè ne parla la fama; e taccio, per non lasciarmi vincere dall’entusiasmo, di quel celebrato formaggio, nel quale, quando s’è fatto tanto di ficcare il coltello, si continua a infierire con una sorta di furore crescente, menando fendenti e puntate, e abbandonandosi a ogni specie di lavori d’intaglio e di scavo, finchè è vuota la forma, e il desiderio aleggia ancora sulle rovine.
Uno straniero che desina per la prima volta in una trattoria olandese vede parecchie novità. Prima d’ogni cosa, dei piatti d’una grandezza e d’uno spessore straordinarii, proporzionati all’appetito nazionale; e in molti luoghi, una salvietta di carta bianca sottilissima, piegata a tre punte, contornata di fiori a stampa, con un piccolo paesaggio agli angoli, e il nome del caffè o della trattoria o un Bon appetit stampato in grandi caratteri azzurri. Lo straniero, per essere sicuro del fatto suo, ordina un rosbiffe, e gliene portano una mezza dozzina di fette grandi come una foglia di cavolo; o una bistecca, e gli portano un cuscinetto di carne sanguinosa che basterebbe a saziare una famiglia; o del pesce, e gli portano un animale lungo come la tavola; e con ciascuna di queste cose, una montagnola di patate bollite e un vasettino di mostarda vigorosa. Di pane, una fettina un po’ più grande di uno scudo, e sottile come una cartilagine; cosa spiacevole per noi latini, che divoriamo il pane come accattoni; così che in una trattoria olandese ci tocca a domandarne ogni momento, con grande stupore dei camerieri. Con uno di quei tre piatti, e un bicchier di birra di Baviera o di birra d’Amsterdam, un galantuomo può dire di aver desinato. Di vino, chi per poco abbia il granchio alla borsa, in Olanda non se ne discorre, perchè è caro assaettato; ma siccome là le borse son gonfie, così quasi tutti gli Olandesi dal mezzo ceto in su, ne bevono; e ci son certo pochi paesi dove si trovi la varietà e l’abbondanza di vini stranieri che si trova in Olanda: