Луна и костры. Прекрасное лето / La luna e i falo. La bella estate. Книга для чтения на итальянском языке. Чезаре Павезе
Читать онлайн книгу.il contadino. E la terra, dove l’han presa? Perché dev’esserci chi ne ha molta e chi niente?
– Cosa sei? comunista?
Nuto mi guardò tra storto e allegro. Lasciò che la banda si sfogasse, poi sbirciandomi sempre borbottò: – Siamo troppo ignoranti in questo paese. Comunista non è chi vuole. C’era uno, lo chiamavano il Ghigna, che si dava del comunista e vendeva i peperoni in piazza. Beveva e poi gridava di notte. Questa gente fa piú male che bene. Ci vorrebbero dei comunisti non ignoranti, che non guastassero il nome. Il Ghigna han fatto presto a fregarlo, piú nessuno gli comprava i peperoni. Ha dovuto andar via quest’inverno.
Gli dissi che aveva ragione ma dovevano muoversi nel ’45 quando il ferro era caldo. Allora anche il Ghigna sarebbe stato un aiuto. – Credevo tornando in Italia di trovarci qualcosa di fatto. Avevate il coltello dal manico…
– Io non avevo che una pialla e uno scalpello, – disse Nuto.
– Della miseria ne ho vista dappertutto, – dissi. – Ci sono dei paesi dove le mosche stanno meglio dei cristiani. Ma non basta per rivoltarsi. La gente ha bisogno di una spinta. Allora avevate la spinta e la forza… C’eri anche tu sulle colline?
Non gliel’avevo mai chiesto. Sapevo di diversi del paese – giovanotti venuti al mondo quando noi non avevamo vent’anni – che c’erano morti, su quelle strade, per quei boschi. Sapevo molte cose, gliele avevo chieste, ma non se lui avesse portato il fazzoletto rosso e maneggiato un fucile. Sapevo che quei boschi s’erano riempiti di gente di fuori, renitenti alla leva, scappati di città, teste calde – e Nuto non era di nessuno di questi. Ma Nuto è Nuto e sa meglio di me quel che è giusto.
– No, – disse Nuto, – se ci andavo, mi bruciavano la casa.
Nella riva del Salto Nuto aveva tenuto nascosto dentro una tana un partigiano ferito e gli portava da mangiare di notte. Me lo aveva detto sua mamma. Ci credevo. Era Nuto. Soltanto ieri per strada incontrando due ragazzi che tormentavano una lucertola gli aveva preso la lucertola. Vent’anni passano per tutti.
– Se il sor Matteo ce l’avesse fatto a noi quando andavamo nella riva, – gli avevo detto, – cos’avresti risposto? Quante nidiate hai fatto fuori a quei tempi?
– Sono gesti da ignoranti, – aveva detto. – Facevamo male tutt’e due. Lasciale vivere le bestie. Soffrono già la loro parte in inverno.
– Dico niente. Hai ragione.
– E poi, si comincia cosí, si finisce con scannarsi e bruciare i paesi.
V
Fa un sole su questi bricchi, un riverbero di grillaia e di tufi che mi ero dimenticato. Qui il caldo piú che scendere dal cielo esce da sotto – dalla terra, dal fondo tra le viti che sembra si sia mangiato ogni verde per andare tutto in tralcio. È un caldo che mi piace, sa un odore: ci sono dentro anch’io a quest’odore, ci sono dentro tante vendemmie e fienagioni e sfogliature, tanti sapori e tante voglie che non sapevo piú d’avere addosso. Cosí mi piace uscire dall’Angelo e tener d’occhio le campagne; quasi quasi vorrei non aver fatto la mia vita, poterla cambiare; dar ragione alle ciance di quelli che mi vedono passare e si chiedono se sono venuto a comprar l’uva o che cosa. Qui nel paese piú nessuno si ricorda di me, piú nessuno tiene conto che sono stato servitore e bastardo. Sanno che a Genova ho dei soldi. Magari c’è qualche ragazzo, servitore com’io sono stato, qualche donna che si annoia dietro le persiane chiuse, che pensa a me com’io pensavo alle collinette di Canelli, alla gente di laggiú, del mondo, che guadagna, se la gode, va lontano sul mare.
Di cascine, un po’ per scherzo un po’ sul serio, già diversi me n’hanno offerte. Io sto a sentire, con le mani dietro la schiena, non tutti sanno che me ne intendo – mi dicono dei gran raccolti di questi anni ma che adesso ci vorrebbe uno scasso, un muretto, un trapianto, e non possono farlo. – Dove sono questi raccolti? – gli dico, – questi profitti? Perché non li spendete nei beni?
– I concimi…
Io che i concimi li ho venduti all’ingrosso, taglio corto. Ma il discorso mi piace. E piú mi piace quando andiamo nei beni, quando traversiamo un’aia, visitiamo una stalla, beviamo un bicchiere.
Il giorno che tornai al casotto di Gaminella, conoscevo già il vecchio Valino. L’aveva fermato Nuto in piazza in mia presenza e gli aveva chiesto se mi conosceva. Un uomo secco e nero, con gli occhi da talpa, che mi guardò circospetto, e quando Nuto gli disse ridendo ch’ero uno che gli aveva mangiato del pane e bevuto del vino, restò lí senza decidersi, torbido. Allora gli chiesi se era lui che aveva tagliato i noccioli e se sopra la stalla c’era sempre quella spalliera di uva passera. Gli dicemmo chi ero e di dove venivo; Valino non cambiò quella faccia scura, disse soltanto che la terra della riva era magra e tutti gli anni la pioggia ne portava via un pezzo. Prima di andarsene mi guardò, guardò Nuto e gli disse: – Vieni una volta su di là. Voglio farti vedere quella tina che perde.
Poi Nuto mi aveva detto: – Tu in Gaminella non mangiavi tutti i giorni… – Non scherzava piú, adesso. – Eppure non vi toccava spartire. Adesso il casotto l’ha comprato la madama della Villa e viene a spartire i raccolti con la bilancia… Una che ha già due cascine e il negozio. Poi dicono i villani ci rubano, i villani sono gente perversa…
Da solo ero tornato su quella strada e pensavo alla vita che poteva aver fatto il Valino in tanti anni – sessanta? forse nemmeno – che lavorava da mezzadro. Da quante case era uscito, da quante terre, dopo averci dormito, mangiato, zappato col sole e col freddo, caricando i mobili su un carretto non suo, per delle strade dove non sarebbe ripassato. Sapevo ch’era vedovo, gli era morta la moglie nella cascina prima di questa e dei figli i piú vecchi erano morti in guerra – non gli restava che un ragazzo e delle donne. Che altro faceva in questo mondo?
Dalla valle del Belbo non era mai uscito. Senza volerlo mi fermai sul sentiero pensando che, se vent’anni prima non fossi scappato, quello era pure il mio destino. Eppure io per il mondo, lui per quelle colline, avevamo girato girato, senza mai poter dire: «Questi sono i miei beni. Su questa trave invecchierò. Morirò in questa stanza».
Arrivai sotto il fico, davanti all’aia, e rividi il sentiero tra i due rialti erbosi. Adesso ci avevano messo delle pietre per scalini. Il salto dal prato alla strada era come una volta – erba morta sotto il mucchio delle fascine, un cesto rotto, delle mele marce e schiacciate. Sentii il cane di sopra scorrere lungo il filo di ferro.
Quando sporsi la testa dagli scalini, il cane impazzí. Si buttò in piedi, ululava, si strozzava. Seguitai a salire, e vidi il portico, il tronco del fico, un rastrello appoggiato all’uscio – la stessa corda col nodo pendeva dal foro dell’uscio. La stessa macchia di verderame intorno alla spalliera sul muro. La stessa pianta di rosmarino sull’angolo della casa. E l’odore, l’odore della casa, della riva, di mele marce, d’erba secca e di rosmarino.
Su una ruota stesa per terra era seduto un ragazzo, in camicino e calzoni strappati, una sola bretella, e teneva una gamba divaricata, scostata in un modo innaturale. Era un gioco quello? Mi guardò sotto il sole, aveva in mano una pelle di coniglio secca, e chiudeva le palpebre magre per guadagnar tempo.
Io mi fermai, lui continuava a batter gli occhi; il cane urlava e strappava il filo. Il ragazzo era scalzo, aveva una crosta sotto l’occhio, le spalle ossute e non muoveva la gamba. D’improvviso mi ricordai quante volte avevo avuto i geloni, le croste sulle ginocchia, le labbra spaccate. Mi ricordai che mettevo gli zoccoli soltanto d’inverno. Mi ricordai come la mamma Virgilia strappava la pelle ai conigli dopo averli sventrati. Mossi la mano e feci un cenno.
Sull’uscio era comparsa una donna, due donne, sottane nere, una decrepita e storta, una piú giovane e ossuta, mi guardavano. Gridai che cercavo il Valino. Non c’era, era andato su per la riva.
La meno vecchia gridò al cane e prese il filo e lo tirò, che rantolava. Il ragazzo si alzò dalla ruota – si alzò a fatica, puntando la gamba per traverso, fu in piedi e strisciò verso il cane. Era zoppo, rachitico, vidi il ginocchio non piú grosso del suo braccio, si tirava il piede dietro come un peso. Avrà avuto dieci anni, e vederlo su quell’aia era come vedere me stesso. Al punto che diedi un’occhiata sotto il portico, dietro il fico, alle melighe,